Fuori gli Spurs al primo turno, eliminati Lakers e Celtics al secondo, rimanevano due ipotesi, altrettanto suggestive: attendersi una finale Bulls-Thunder, il “nuovo” che avanza, il futuro della Lega…oggi! Oppure la rivincita, la riedizione delle Finals 2006, i Big Three di Miami di fronte a Nowitzki, Kidd e tutti l’allegra compagnia di Mark Cuban, probabilmente all’ultima chiamata per l’anello? Barrare “B”!
Onore ai vinti – Chicago e Oklahoma City escono a testa alta, altissima, dalle finali di conference. Il futuro è loro, dopo che per tutta la stagione, soprattutto i Bulls, hanno impressionato per una continuità inaspettata ai vertici della Lega. Chicago ha raccolto risultati impensabili (alla vigilia) anche dal punto di vista individuale, portando a casa i titoli di MVP e Coach of the year. Meritatissimi, entrambi. Rose è ormai una stella affermata e come tale nel post-partita, si prende tutte le colpe della sconfitta, per troppe palle perse e scelte di tiro, falli evitabili in difesa e in sostanza l’incapacità da solo di portare i suoi Bulls alle Finals, un ritorno atteso dal 1998. Questo ci riporta a un vecchio adagio della pallacanestro, ad ogni latitudine: da soli non si vince, e proprio dalle parti dello United Center (e una volta dello storico Chicago Stadium) ne sanno qualcosa. Qui hanno visto MJ conquistare titoli di capocannoniere, miglior difensore dell’anno, primo quintetto, ecc. ecc. Tutte onoreficienze inutili finchè la dirigenza non gli ha messo attorno figure vincenti e complementari al gioco di Phil Jackson, come Pippen, Grant, Hodges, Cartwright, e poi B.J. Armstrong, Paxon, Kukoc, Rodman. Intuibile con non molte difficoltà il fatto che ora ci troviamo in una situazione analoga. I primi Bulls a ri-destare un qualche interesse per risultati positivi conseguiti, dopo lo smantellamento della squadra 6 volte campione NBA furono quelli di Coach Skiles, e se pensiamo che di quel roster è rimasto solo Deng, significa che la dirigenza ha già iniziato il suo lavoro, e il risultato – in un campionato che come dico sempre non permette di festeggiare ai secondi, o terzi, o sesti, per una qualificazione alla coppa di turno, ma solo ai primi della classe – è da considerarsi fino ad ora positivo.
Ad Oklahoma City non sapevano nemmeno cosa fosse il basket professionistico finchè in (ehm) città – complice l’uragano Katrina – non appervero gli Hornets, in gita tutt’altro che voluta e comunque con scadenza immediata e biglietto di ritorno a New Orleans già in tasca. Poi da Seattle sono arrivati questi, e la cittadina (meglio definirla così, per i parametri americani) è impazzita! Il pubblico più caldo dell’intera NBA ha sostenuto questa che è una squadra di college o poco più fino alle soglie di un sogno. Svanito, nell’immediato, ma sicuramente riproponibile già dalla prossima stagione. Durant, Westbrook, Harden, Collison, Ibaka, formano già da ora l’ossatura per i prossimi anni e sono certo che qualche scambio azzeccato del GM Sam Presti (magari più di quello che ha portato Perkins a non incidere minimamente come avveniva in maglia Celtics – ehm, Garnett al momento ce l’hanno ancora loro, cosa da non sottovalutare nel giudicare il rendimento di Kendrick) darà fin da subito nuove chances di vittoria ai Thunder.
Qui Miami – Molto spesso nella nostra immaginazione gli atteggiamenti, e anche il tipo di gioco delle squadre NBA si sposano con la città di provenienza. Tipico esempio è quello dei Lakers dello “show time”: non sarebbero potuti venire da altra città se non L.A.! Il sorriso di Magic, il gioco spettacolare in campo aperto…tutto ricordava anche sul parquet la città del cinema, delle rockstars, delle bagnine “alla” Baywatch. La “spettacolarità” (o presunzione, o sfacciataggine, chiamatela come volete) della presentazione dei Big Three di Miami la scorsa estate ha avvicinato molto gli Heat a questo concetto, richiamato ora dai festeggiamenti prima per il superamento del turno contro il loro personale incubo, chiamato Boston Celtics (altra franchigia da sempre identificatasi al meglio con lo spirito cittadino), e ora per l’approdo alle Finals, secondo viaggio dopo quello vincente del 2006. Non vogliatene, sono ragazzi, direbbe qualcuno. Quel che conta – per arrivare fin qui, e magari salire l’ultimo scalino verso l’anello – è quel che succede sui 28 metri di parquet. E per far sì che fosse davvero possibile raggiungere gli obiettivi dichiarati in estate, i 3 Amigos si sono messi anche a difendere! Non una difesa organizzata come quella dei Bulls, più un discorso individuale, di approccio, piccoli accorgimenti per far dare via la palla a Rose e impedirgli di attaccare sempre e comunque il ferro riempiendo copiosamente l’area verniciata. E’ già qualcosa, comunque, se poi sull’altro fronte, in attacco, le prove individuali (anche di Bosh, decisivo almeno in due gare della serie) sostengono un attacco tra i più brutti e meno organizzati visti fino ad oggi tra le finaliste NBA. Il pronostico a loro favore è abbastanza scontato, quasi per tutta la stampa americana, se non fosse che…
Qui Dallas – Ecco, prendete tutto quello che ho appena scritto su festeggiamenti e atteggiamenti dei giocatori simbolo degli Heat e cestinatelo. A Dallas la vittoria della Western Conference ha fatto scattare al massimo un sorriso forzato. Nell’ultimo intervento avevo accostato le prestazioni offensive (solo quelle eh?) di Nowitzki a quelle di Larry Bird. Ora, con stupore ma con altrettanta convinzione, devo paragonare anche la faccia del tedesco a quella di The Legend. Apparso nella cerimonia di consegna del premio per i vincitori dell’Ovest solo per obbligo di firma e di copione. Sono convinto – e lo sguardo non lasciava dubbi – che se fosse stato per Dirk quel trofeo di così poco conto non si sarebbe nemmeno sollevato al cielo. I complimenti con i compagni e lo staff tecnico, quelli sì ovviamente, ma niente più. La testa era già alle Finals. Tornarci dopo 5 anni, ancora contro Miami, ha un significato per Nowitzki e tutti i Mavs che va al di là della “semplice” occasione di portare a casa un anello. Ci aspettano secondo me almeno 6 gare, se non 7, di un’intensità spasmodica, dopo tutta l’energia sprigionata dalle varie contenders nel corso di questi bellissimi playoffs 2011, si salirà ancora di livello. Si arriverà a godersi la pallacanestro al suo massimo livello, quel basket fatto di atleti eccezionali, giocate individuali delle superstars, aggiustamenti continui da parte dei coaches. La tavola è apparecchiata. Ladies and gentlemen: welcome to the 2011 NBA Finals!
Andrea Pontremoli