Ci sono canzoni che, al di là del valore intrinseco, segnano un’epoca perché si associano a fatti che passano alla storia e restano, pertanto, nell’immaginario collettivo come la colonna sonora del momento. Non ce ne vorranno gli apologeti della caduta del Muro se rubiamo il brano degli Scorpions per incollarlo ad un evento sportivo. Il fatto è che queste Finals e, forse, gli interi playoff, segnano, a nostro avviso, un passaggio stretto nella storia del nostro sport preferito, così come rischia di fare l’offseason appena iniziata (con la bomba-Davis, la rottura Harden-Paul, il fenomeno Zion e altre cosine da niente…).
Domani, all’alba delle nuova stagione, il pianeta NBA potrebbe non essere più lo stesso.
Tante ne abbiamo lette, in questi giorni, a caldo e meno a caldo, sulla bellissima serie appena conclusa. Tanti commenti e articoli interessanti, altri un po’ impietosi. Ci permettiamo, a bocce ferme e fredde, mentre tutti sono ancora immersi nell’analisi del draft e i rumors impazzano, di portare qualche considerazione tutta nostra. Così, banalmente, spaziando tra generi musicali e, magari, infilando l’acrostico giusto…
R come rispetto. Quello dovuto agli sconfitti, cui l’onore delle armi spetta di diritto e non per convenzione: per la storia recente, in cui i Warriors hanno non solo dominato la Lega, ma cambiato la concezione stessa della pallacanestro; ma anche per quanto visto in campo durante la stagione, i playoff e le gare di finale: hanno sofferto, hanno vissuto tensioni, hanno rimesso insieme i cocci, hanno dato spettacolo e fatto sperare o temere (fate voi) che l’esito finale fosse nuovamente scontato, hanno pagato pesante dazio alla dea bendata, che ha deciso di sugellare la fine di un’epoca reclamando, dalla truppa di Kerr, il pagamento di tutti i debiti in un’unica rata, proprio quando più contava.
E quello dovuto ai vincitori, che hanno visto la propria impresa epocale ingenerosamente svalutata da troppi se e ma, dimentichi, i critici, che la storia non si costruisce su di essi, ma sui fatti concreti: quelli che parlano di una squadra che è rimasta crisalide e si è aggrappata al suo leader finché ha dovuto, per poi trasformarsi in farfalla e spiccare il volo quando occorreva, al momento giusto, fino a griffare una nuova pagina di storia riportando il titolo a Est quando nessuno o quasi lo credeva possibile. Detto, doverosamente e convintamente, che mai titolo fu più meritato indipendentemente dagli infortuni…
A come assenze. …neppure possiamo nasconderci dietro il dito della retorica rivolto al cielo o parato sulla bocca a reclamare silenzio, se i campioni uscenti sono stati falcidiati dai traumi! Il campo è l’unico giudice, le sue sentenze sono senza appello e ci ha detto, senza tema di smentite (a meno di non voler imitare le tre scimmiette), che senza Kevin Durant Golden State torna tra i comuni mortali e, quando anche senza Klay Thompson, semplicemente non è da Finals, per manifesta inferiorità tecnica, difensiva e di gioco. Punto. Avendo disputato solo un quarto, il primo, prima di spezzarsi il tendine d’Achille; avendo, il secondo, saltato gara 3, giocato il secondo tempo di gara 4 abbondantemente incerottato, fino a stramazzare al suolo, in gara 6, nel momento in cui tutto si decideva; con un Looney prezioso soprattutto in difesa, prima di finire acciaccato ad una spalla anche lui, mentiremmo se dicessimo che l’esito complessivo non ne sia stato condizionato. Senza dimenticare, però, che anche Leonard ha lungamente zoppicato senza smettere di essere, per questo, l’MVP dei playoff per distacco…
P come pubblico. Rumoroso più di sempre, sportivo molto meno. Senza voler fare la morale ad alcuno e ben sapendo che il tifo è spettacolo nello spettacolo anche (entro certi limiti) per i suoi eccessi emotivi, ci ha colpito negativamente che siano dovuti intervenire Lowry e Drake per indurre i propri fans a trasformare in applausi la gioia e la derisione per il grave infortunio di KD. Mai come in questa serie, tuttavia, per quanto caldo, il fattore campo è contato nulla: Toronto 1-2 in casa, Golden State, all’ultima recita sul glorioso palcoscenico dell’Oracle Arena, addirittura 0-3… Bene, ma non benissimo, le due tifoserie, dunque, con l’augurio, ad entrambe, di avere occasione di riscatto al più presto.
T come temi tattici. Eh, sì: non per appesantire o rendere più prosaica e saccente la nostra analisi, ma difficilmente riusciamo a ricordare Finals tanto “di squadra”, in cui abbiamo individuato così tanti fili conduttori con cui è stata intessuta la trama dello spettacolo cui abbiamo avuto la fortuna di assistere. Non abbiamo la pretesa di imporre la nostra visione tecnica ad alcuno, noi di #insideout, consapevoli che le chiavi di lettura siano molteplici e le variazioni sul tema siano state continue, come sempre. Ci va solo di lasciarvi qualche spunto di riflessione.
- “L’ultima volta che Golden State ha affrontato un rookie coach armato di superstar, in finale, le cose sono andate maluccio”, la chiosa dell’ultimo numero di #insideout. Nel quale indicavamo nell’auspicato rientro di Durant la chiave del pronostico ancora sbilanciato appannaggio dei campioni uscenti. Dopo aver tessuto le lodi di Golden State, non abbiam portato loro benissimo e la storia si è ripetuta e nel peggiore dei modi, per i Warriors, vittime della malasorte ma anche delle ottime scelte operate da coach Nurse.
- I lunghi hanno fatto la differenza. Tanto bravi nel raddoppiare sulla palla e soprattutto su Curry, quanto come rim protectors, in difesa; tanto superiori ai pari ruolo avversari nell’aprire il campo quando occorreva: quando Gasol, Siakam e anche Ibaka si allontanavano dal ferro, difficilmente c’era scampo per la difesa avversaria. Confronto impari e stravinto dai Raptors senz’appello, anche per via della discontinuità di DeMarcus Cousins, che ha alternato flash da campione a momenti di rara pochezza, soprattutto difensiva. Lui, Boogie, il destinato a fare dei Warriors il superteam imbattibile, la pietra dello scandalo dell’estate 2018, tormentone tanto fastidioso e inutile da farmi pensare al “despacito” di turno. Ma preferisco tornare agli Scorpions…
- Lezioni di spaziature. Sembra paradossale e, forse, avessi fatto una simile affermazione un mese fa, mi sarei giocato il posto in #all-around.net, ma Nurse ha spiegato le spaziature offensive a Steve Kerr. Punto! La differenza si è fatta palpabile quando assente Klay Thompson, vero maestro della difesa e decisivo in uscita dai blocchi (la sua marcatura su Leonard e la sua tripla hanno, emblematicamente, deciso gara 5 nel finale!), così come la mancanza del gioco in post e dei mismatch assicurati da KD, chiavi tattiche dei Warriors, hanno certo zavorrato la circolazione gialloblu. Ciò nulla toglie allo spettacolo di quattro tiratori scelti pronti a ricevere gli scarichi di Leonard, Lowry o Van Vleet (che dire, delle finals disputate da questi ultimi due, dei loro spot up, della capacità di reggere l’urto fisico di gente ben più grossa? Sono entrati in finale due nani, sono usciti giganteggiando!). Le triple dall’angolo sugli scarichi, se emettessero un suono, sarebbero la colonna sonora di queste finali: musica per gli occhi!
- Iggy Pop. Vera croce e delizia di queste finali, Andrè Iguodala è stato, nel bene e nel male, una pedina-chiave nello scacchiere sul quale si fronteggiavano Nurse, che ha palesemente scelto di lasciarlo tirare spedendo i suoi lunghi a raddoppiare altrove (ed ha quasi sempre auto ragione), e Kerr, che sulla difesa del suo numero 9 su Siakam ha costruito le fondamenta della vittoria in gara 2 e sul suo riscatto, anche in fase realizzativa, la quasi impresa di gara 6. Rock and roll mai banale, Iggy…
- Klay. Il mio personale MVP emotivo. Così, a sensazione e rifiutandomi di sbirciare plus/minus e ratings on & off the court, colui la cui presenza in campo ha più radicalmente incanalato le partite. Fuori Durant, quando Thompson c’è stato, la squadra ha preso a girare meglio la palla, costretto le maglie dei Raptors ad allargarsi, registrato, con la sua sola presenza, il timing delle rotazioni difensive, messo il guinzaglio (per quanto possibile) perfino ad un certo Kawhi, tenuto in low post contro Siakam e in qualsiasi uno contro uno. Fuori lui, poca resistenza avevano più da opporre i suoi Warriors, nonostante le magate di Curry ed un Draymond Green spettacolare in versione playmaker e metronomo difensivo della squadra (a voler essere cattivi, abbiamo visto il suo meglio in assenza di KD, ma noi cattivi non siamo…).
O come Ontario (Canada)! Si, perché sarà banale e lo avranno detto già tutti, ma a noi il primo Larry O’Brien che vola oltreconfine ci sfizia un casino! Questa è stata una serie di finale rivoluzionaria sotto tanti aspetti ma questo, forse li batte tutti. Immaginate l’orgoglio di un popolo, la gioventù di una franchigia nata appena venti anni fa. Un mercato, la scorsa estate, in cui hanno rischiato giocandosi il tutto per tutto, la deadline, l’arrivo di Marc Gasol (forse non il migliore, ma uomo di svolta tattica se ce n’è uno). Ora chiudete gli occhi e provate ad immaginare quanto impulso questo successo possa dare alla linea, già ventilata dal già rivoluzionario (soft) Silver, di apertura verso il sud (Messico) e addirittura l’Europa…Morale: in NBA niente è impossibile. The sky is the limit!
R come rotazioni. Come spesso succede nelle sfide al meglio delle sette partite, chi ha avuto le idee giuste, la qualità e la possibilità di accorciare le rotazioni distribuendo le responsabilità su un numero ristretto di fedelissimi, definire le gerarchie ed i rispettivi ruoli, ha avuto ragione. Toronto ha disputato queste Finals praticamente in sette (i titolari più VanVleet e Ibaka) spremendo, da una panchina tanto corta, un distillato di qualità e un contributo decisivo nell’economia della sfida. Golden State ha ruotato fino a dieci giocatori, svuotando la panchina, anche se con minutaggio non eccessivo, ottenendo molto meno dai Cook, Bell, Livingston, DMC, salvo qualche fiammata. D’accordo: il povero Steve Kerr, uomo e coach che, per me, non ha più nulla da dimostrare, si è ritrovato in condizioni a dir poco sfavorevoli a causa dell’infermeria ma, a voler essere drastici fino al midollo, se una morale possiamo estrarre da tutto questo è: il superteam, quando penalizzato dagli infortuni, mostra tutta la debolezza dei suoi gregari mentre Toronto, che di stella ne aveva una sola, ha dimostrato a tutti come si vinca di squadra, con tanti splendidi guerrieri ma (quasi) nessuna divinità del basket. Se non è musica d’orchestra questa….
S come sconvolti! È come ci sentiamo noi dopo la vittoria del titolo da parte di una franchigia data ormai da tutti come una bella incompiuta, una partita persa, che affrontava la stagione puntando tutto su una star bizzosa, problematica, su un coach alla prima esperienza chiamato nientemeno che a raccogliere l’eredità del COY 2018. Ma anche per la fine dolorosissima dell’era dell’eldorado, che avremmo voluto giungesse (perché tutte le storie, anche le più belle, hanno sempre una fine) per spegnimento naturale, o per il sopraggiungere di una squadra migliore e non per opera di chirurghi ortopedici! Se è stata dura digerire una post-season senza LeBron James, provate ad immaginare un’intera stagione senza Kevin Durant e Klay Thompson: se la cosa non vi tocca, semplicemente, siete arrivati quasi alla fine della lettura sbagliata, perché la palla a canestro non è il vostro genere.
Ora, pensate ad una dominatrice costretta a non essere più tale, immaginate Houston (forse) disossata dalle partenze di Paul e Capela (magari così non sarà, ma il mercato è quella cosa meravigliosa che permette, oggi, di ipotizzare di tutto e di più senza mai sfigurare), i Lakers che mettono assieme la coppia del secolo ma che restano, praticamente, senza quasi più nulla intorno, i Jazz che affiancano Conley a Mitchell, i Clippers pronti a gettarsi su chissà quali star, Leonard e Butler, forse Tobias Harris pronti a lasciare, chissà, gli attuali alloggi, i Celtics passare da favoriti per il titolo ad un ipotetico, nuovo rebuilding… Shakerate il tutto con forza e provate ad assaggiare: il cocktail è potenzialmente allucinogeno e vi mostrerà scenari fino a ieri inimmaginabili!
E tuttavia le finali NBA sono un po’ come musica o poesia: ci gustiamo tutto l’arrangiamento, la lettura o l’ascolto dei versi ma, alla fine della giostra, ciò che resta nella memoria sono quel riff che non ti abbandona mai o l’acrostico dei versi, se ce n’è uno. Oggi quel riff si suona oltreconfine e l’acrostico si pronuncia Raptors! Hail to Canada!