Non è mai stato un bad boy, anzi. Distinto, discreto, silenzioso quasi in campo ma straordinariamente efficace quando c’era da tirare giù grinta, carattere e voglia di vincere. Ecco chi era Andrea Gracis, un signore di altri tempi del basket italiano ed azzurro vincente, in Italia, in Europa e nel Mondo.
Una carriera spesa prevalentemente con solo due casacche sulla pelle, Pesaro prima e Treviso dopo, due maglie che lo hanno contraddistinto e lanciato nel firmamento del basket italiano.
Inizia a giocare a basket….Per caso. I suoi genitori, non amando il calcio a causa delle sue “storture” sociali (rimasero impressionati negativamente dalle continue urla provenienti dagli spalti durante un incontro del piccolo Andrea che giocava nei pulcini a Treviso), lo indirizzano alla pallacanestro.
Andrea non ama il basket ma il carattere dei genitori prevale, e sarà la sua fortuna. Lentamente s’appassiona sempre più a quello spazio limitato del campo da gioco e capisce l’importanza del fare ciò che devi fare con la palla in mano il più velocemente possibile: pensiero ed azione a velocità doppia rispetto al calcio.
A diciassette anni entra nel vivaio del Montebelluna e nella stagione 1979-80, considerando il suo talento e la sua determinazione silenziosa ma fortissima, approda alla Liberti Treviso, che presto diventerà la Benetton. E’ l’anno dell’A2 per la città che segnerà, d’ora in avanti, un ruolo determinante per le vittorie e la crescita del movimento italiano.
Ma tra il discreto Andrea e coach Mario De Sisti, simpaticamente famoso per le sue clamorose sfuriate in allenamento, non c’è molto feeling e l’anno dopo il Nostro approda a Venezia, alla corte oro-granata della Reyer.
Le sue prestazioni impressionano per solidità e continuità, a Pesaro se ne accorgono prima di Milano e Bologna e mettono Andrea sotto contratto. E’ la prima volta per lui così fuori di casa ed all’inizio il Nostro non fa proprio i salti di gioia ma non sa che da lì a poco verrà costruita una delle squadre più forti del campionato italiano.
Nonostante Pesaro sia nelle Marche, potrebbe tranquillamente essere scambiata per terra di Romagna per come i suoi abitanti siano espansivi, goderecci e per Andrea l’ambientamento, per lui che da bravo veneto preferisce tener dentro le cose, è più facile del previsto. Eppoi si vive di basket, l’anno precedente Pesaro ha perso in semifinale scudetto contro Milano ed ha posto le basi per pretendere lo scudetto.
E’ la Scavolini d’impronta jugoslava, con Pero Skansi in panchina ed Il Cobra Kikanovic in campo, con un nucleo italiano fortissimo: Walter Magnifico, Domenico Zampolini, il paisà Mike Silvester. Ma è anche il momento storico delle feroci polemiche, l’Italia del basket non vede bene questa mini-balcanizzazione della squadra marchigiana e Skansi con Kikanovic è costretto ad andar via proprio quando arriva Andrea.
Arrivano così per lui 11 anni in maglia Biancorossa, 11 anni di vittorie, Andrea ne diventa uno dei giocatori-simbolo con due scudetti, due coppe Italia ed anche tre volte alla finale scudetto.
Nel 1994 il passo finale della sua carriera, il ritornò a Treviso dove continua a vincere con la Benetton di Mike D’Antoni in panchina: uno scudetto, una coppa Italia ed una coppa Europa.
In Maglia Azzurra invece colleziona 93 presenze facendo parte di quell’Italia che in un PalaEUR stracolmo di gente nel maggio del 1991 dove arrendersi all’ultima Jugoslavia prima del disfacimento della federazione stessa, la squadra dei grandi Radja, Kukoc, Divac, Djordevic, Danilovic, Paspalj.
Termina la sua carriera cestistica a Mestre, a 39 anni in serie B d’Eccellenza. Adesso è ancora nel mondo del basket lavorando come procuratore-agente, ed è attualmente scout per l’Europa per i Sacramento Kings.
Alla fine i sui numeri parlano chiaro: collezionando 655 partite siglando ben 5.015 punti.
Contattato dal sottoscritto su Facebook, Andrea ha accettato di buon grado di sottoporsi ad un simpatico mini-interrogatorio su se stesso, su quanto ha avuto dal basket e su quanto possa avere dato a questo straordinario sport.
Allora Andrea, come inizia la relazione tra Andrea, bimbo a Treviso, ed il basket?
Con un canestro appeso in giardino, due fratelli più grandi che già giocano a basket…e un papà che non vuole che faccia parte dei “pulcini” del Treviso Calcio: un ambiente poco educativo, secondo lui. Chiuso con il calcio il richiamo della pallacanestro è stato irresistibile.
Quale la molla che ti ha fatto innamorare della pallacanestro?
L’amicizia. Gli sport di squadra mi hanno sempre affascinato e giocare con i miei coetanei era la cosa che desideravo di più. Poi piano piano, quasi senza accorgermi, la pallacanestro è diventata la mia vita.
A chi devi molto della tua maturazione tecnico-sportiva?
Da tutte le persone che ho incontrato e che mi hanno allenato ho sempre appreso qualcosa che mi ha fatto crescere, può essere banale, ma è la verità. Se devo indicarne una che ha dato una svolta forse decisiva alla mia maturazione dico Valerio Bianchini.
Pesaro come punto fermo nella tua carriera. La vittoria più bella ? Ma anche la delusione più cocente?
La vittoria più bella? Troppo facile: il primo scudetto. Pura felicità perché inaspettata, mai provata prima e condivisa con una città intera.
La delusione? La sconfitta a tavolino nella semifinale playoff dell’89, per una monetina. Ti senti impotente di fronte a qualcosa che non ha niente a che fare con lo sport e con il tuo essere giocatore più o meno bravo.
L’approdo a Treviso con D’Antoni coach dopo Pesaro, distacco dovuto o voluto?
Dopo 11 anni sono tornato a Treviso volentieri perché mi volevano D’Antoni e Gherardini e perché volevo dimostrare di poter essere profeta in patria, ma se Valter Scavolini mi avesse chiesto di restare non me ne sarei mai andato da Pesaro.
La Maglia Azzurra, l’argento di Roma nel 1991 (io c’ero…), cosa ti ricordi di quella manifestazione?
La finale con la ex Yugoslavia. Un bellissimo argento, in un palazzo dello sport esaurito contro campioni che non avrebbero mai più giocato assieme.
Riesci a fare una classifica degli allenatori milgiori avuti, pur se è compito arduo?
Mi dispiacerebbe. Dovrei fare troppi distinguo e certamente non rispecchierebbe il loro reale valore perché influenzata dal momento in cui ci siamo incontrati e da altri elementi estremamente soggettivi. A tutti devo la mia crescita e maturazione come persona e come giocatore e mi piace ricordarli in ordine sparso:
Nikolic, De Sisti, Zorzi, Medeot, Teso, Obradovic, Sacco, D’Antoni, Bianchini, Scariolo, Bucci, senza contare quelli del periodo giovanile (e quelli che avrò sicuamente dimenticato!).
Cosa ti piace e cosa non ti piace del basket di oggi?
Mi piace l’idea di un basket universale in cui le diverse culture possono essere una ricchezza e non un limite. Non mi piace il basket senz’anima e non mi piacciono le squadre senza un’identità, senza “ideali”. È facile dare la colpa ai troppi stranieri, ma non è solo per quello. Sicuramente è più difficile che in passato, ma si possono costruire gruppi solidi fatti da brave persone e bravi giocatori, che siano italiani o stranieri.
Ci stiamo avvicinando ai Campionati Europei in Lituania. Cosa pensi possa fare l’Italia dei 3 NBA ?
Se il talento dei tre “americani” sarà equilibrato in un contesto di squadra, come credo sarà l’obiettivo di Pianigiani, allora potremmo avere delle belle soddisfazioni.
Perché facciamo fatica a sfornare nuovi talenti rispetto ai tuoi anni?
Credo che i talenti ci siano, e lo dimostrano proprio Gallinari, Bargnani e Belinelli. In generale però i ragazzi sono cambiati, il loro mondo è cambiato e con questo bisogna confrontarsi. I settori giovanili fanno sempre più fatica a sopravvivere, è difficile programmare e investire nella crescita dei ragazzi.
Un discorso comunque molto lungo e complesso e con soluzioni difficili da trovare.
E non è escluso che un giorno, anche grazie all’aiuto ed all’esperienza di Andrea Gracis, non ci si metta a disquisire in modo profondo e concreto
Fabrizio Noto/FRED
@fabernoto