2.14 Parte dal cellulare sul comodino Sweet Child O’Mine. La Regular Season notturna, con un po’ di ritardo, inizia anche per me e comincia con un match dai mille spunti di discussione: da un lato i Miami Heat, padroni di casa, dall’altro i Boston Celtics che avevo lasciato, tra la pazza gioia, sconfitti in quella lontana gara-7 delle finali 2010. L’atmosfera magari si ridimensiona leggermente, ma il fascino della serata TNT al giovedì sera resta immutato proprio come lo ricordavo e così il live scorre sereno (quasi come il mio gatto, compagno eterno sulle mie gambe) con un occhio al video e uno al profitterol che comincio a divorare fin dalla palla a due, cercando di dimenticare le parole di un mio amico appena tornato dal New Jersey sull’odore di fritto infernale che accoglie tifosi e giocatori in ogni arena americana…(ma anche “Papa l’americano” nelle pause fa piuttosto ribrezzo).
Pronti via e Boston sorprende un po’ tutti costruendo a razzo un parziale di 14-5 che esprime già in sintesi i restanti minuti del match: i Celtics, interessati a giocare un basket lento nei primi minuti per sfruttare al meglio Shaq, muovono molto bene la palla, giocando saggiamente sui 24 secondi e trovando sempre buone soluzioni nei buchi lasciati dalla fievole difesa Heat; Rondo in particolar modo si mette in luce per le sue strepitose capacità di playmaking, liberando sempre i compagni e spostando a piacimento la difesa, convergendo verso il pitturato inseguito da mezza squadra, ma sempre libero di trovare il giusto scarico o di infilzare l’inutile zona di Spoelstra. Quando poi Allen ha la mano calda (7-9 dall’arco) anche Wade, che soffre Allen in maniera inaudita al passaggio dietro i blocchi (tipico di un difensore solo atletico e non tecnico come lui) deve constatare come la retroguardia casalinga scricchioli troppo, incapace di ruotare sui cambi e fermare davvero Mr. “He Got Game” che con una delle sue bombe in transizione porta a +14 i suoi a poco più di metà secondo quarto; i Celtics giocano esattamente allo stesso modo dello scorso anno, non ci sono particolari cambiamenti nè di rosa nè di gestione del campo, facendo della propria panca un fattore determinante nell’arco dei 48 minuti, guidati dalla saggia gestione di quelli che erano (e forse in parte sono ancora) i veri Big Three, Four considerando la giovane new entry #9 di Kentucky. Cosa più importante poi nessun black out, ma sempre la nette impressione di controllare la partita, lasciando l’iniziativa al solo Lebron e fermando, con ben poca fatica, i restanti quattro. Boston insomma ha sempre la testa sulle spalle, con magari qualche anno di troppo nelle gambe, ma dotata sempre di una pallacanestro ragionata e all’occorrenza esplosiva, un mix che pare non li allontani di un solo centimetro dall’essere contender per l’ennesima stagione, ma la RS è lunga e dunque non voglio smarrirmi in inutili previsioni a lungo raggio sulla base di qualche highlights. Certo è che Doc Rivers va lodato per avere sempre la soluzione e la giusta parola in ogni situazione, anche di fronte al giornalista dal fazzoletto rosso nel taschino (tutta un’altra storia rispetto alla voce narrante Kevin Harlan e la sigletta TNT) perso e svampito con le sue domande “How can you stop James?” e la secca risposta “I really don’t know. But we must do it! “.
Discorso sostanzialmente inverso per gli sconfitti Heat che non solo collezionano uno 0-2 contro il team del Massachusetts e un 5-4 come record totale, ma vedono notevolmente colpito il proprio progetto di massacro generale della NBA con una serie di L inattese e piuttosto brucianti. Il match apre subito a due evidenti problemi per Miami: la mancanza di un vero lungo da piazzare nel pitturato e una serie di cambi inadeguati per coprire a pieno il minutaggio dei titolari già costretti a notevoli compiti extra, pecca che già preoccupava chiunque fin da quando la squadra è stata creata in estate. Poi è vero, la sfida proponeva una squadra con interpreti che devono abituarsi a tutto un altro tipo di gioco ed una che si conosce a menadito e che gioca in modo automatico ogni singolo possesso, ma in Miami è esaltata pure la frenesia di ciascun possesso con circolazione di palla al limite dell’inesistente, una lunga serie di TO, conseguenza di scarsa intesa fra i singoli, gestione scellerata dello shot-clock ed infine una difesa che a tratti durante il match pareva tanto quella dei Warriors con Nelson in panchina: una chiara dimostrazione di come la chimica manchi quasi del tutto e di come la fase di rodaggio sia ancora in pieno atto, con Riley ad ora vero allenatore dei ragazzi della Florida. Gli Heat sono incerti e viaggiano il 90% delle azioni sull’onda di possessi singoli, il che, quando hai James in squadra, può farti sì tenere a galla tutto il terzo periodo e buona parte del quarto, ma che alla fine peccherà anch’esso magari proprio negli attimi finali e fondamentali; a tutto ciò si aggiunge la carenza di un lungo di ruolo con Bosh, primo indiziato, finora grande assente della triade in entrambe le metacampo soprattutto in termini di grinta e spessore dove serve, rimpiazzabile soltanto da Ilgauskas che però a malapena riesce ancora a “librarsi in volo”. Il risultato? Heat ultimi nelle classifiche riguardanti punti in area, 2nd chance e rimbalzi offensivi, costantemente sovrastati da Garnett, Big Baby Davis e il buon Shaq. Una buona parola va messa comunque su Eddie House, che come con la maglia bianco-verde sapeva come far male e sulla rapidità di esecuzione, atletismo e velocità che portano non di rado a falli sistematici avversari per evitare show circensi dei due maghi dall’altra parte del campo. Riassumendo la coesione difensiva è nulla, il pitturato è un’autostrada per i play, con tanto di casello per i 4 e 5 avversari, ma d’altronde quando schieri 3 top-10, è inevitabile o quasi che i restanti due saranno ben poca sostanza in confronto e la cosa, se non si pone rimedio, potrà essere un limite non da poco per il futuro della franchigia…ma Pat di solito non ci tiene a fare brutte figure! 112-107 e qualche fischio qua e là. Di nuovo a letto, io e Whisky. Domani interroga in biologia, speriamo di digerire…
Michele Di Terlizzi