Sull’opportunità di soffermarsi circa gli aspetti tecnici di una partita di inizio-regular season si è già disquisito in altri articoli e credo sia più che conclamato il fatto che ciò vediamo è solo “una delle 82” che traghettano protagonisti ed appassionati ad aprile, cioè quando conta. Detto ciò chi vi parla ha la coscienza più che pulita nell’annunciare che scriverà poco dei fatti visti in quel della Louisiana per favorire l’analisi delle prime tendenze della stagione nba.
Primo sell-out per la New Orleans Arena che ospita su di un tappeto di fischi i big three della Florida, mentre grande eccitazione viene riservata ai beniamini locali che cavalcano l’onda dell’ imbattibilità dopo quattro gare. Pronti-via: in canotta nera si sono presentati le controfigure mentre Paul al sassofono improvvisa nove assist nove che propiziano, tra l’altro, undici punti di Okafor e la doppia cifra di vantaggio. Seconda frazione senza Wade e con la versione Cavs degli Heat: James as himself , due tiratori sull’arco (House e Jones), l’amico Ilgauskas sul gomito e Haslem nei panni di Varejao gioca negli spazi. Palla a James, pick and roll centrale e scarico sugli adeguamenti, canovaccio che in particolare il totem lituano conosce più delle sue tasche e ne consegue un parziale che riporta Miami a contatto. Rientra Flash e si mette pazientemente sull’angolo ad aspettare che arrivi la boccia ma non appena la vede comincia ad attaccare il ferro con regolarità. Sembrano arrivare da un momento all’altro gli Heat ma nella metà campo difensiva latita una risposta adeguata a Chris Paul che, nel fare ciò che vuole e con West afflitto dai falli, decide di trasformare il centrone di origine nigeriana nel “go to guy” di serata nonché l’ex Jason Smith in una sentenza dalla media. Classico risveglio di competitività nel quarto decisivo che non basta a sopire pubblico ed Ariza che quando serve, oramai è noto, tende a fare la cosa giusta: in questo caso tripla. Sulla paternità dell’assist nemmeno mi soffermo, tanto abbiamo già capito.
Trends dunque, tendenze. Nella prima settimana a pieno regime di regular season ne abbiamo notate molte, alcune grazie all’attenta analisi degli amici di sky: la tolleranza zero a livello comportamentale, ad esempio, non può non essere vista con favore dato che non toglie spazio allo spettacolo e serve al nostro avvocatino newyorkese (che manda avanti la baracca) a non far scappare certi buoi dalla stalla. Sembra essere più che condivisibile l’interpretazione, la visione che emerge: l’autocontrollo va a corredare la prestazione del giocatore e la mancanza di esso causa la mancanza dei presupposti per la permanenza in campo, intaccando ergo la prestazione stessa. Bravo, direte, hai scoperto l’acqua calda! Forse, ma se leggendo attentamente dietro alle righe forse scopriamo che non c’è nulla di più ugualitario e sensato che punire l’assenza di autocontrollo indistintamente piuttosto che fare ore ed ore di trasmissioni e prove tv sulla prevalenza del “vaffa” rispetto alla bestemmia, arrivando a punire con gogna mediatica e giornate di squalifica una simulazione, mentre una tentata aggressione con cinque persone che ti trattengono non è poi così grave. Rischioso comparare calcio italiano e basket Usa? Certo che si, ma se dare un giro di vite su ciò che si può o non si può fare in mezzo al campo non necessariamente reprimere ma “educare per educare”, perché calcio o basket o cricket che sia uno sportivo professionista è un esempio e ne deve essere cosciente soprattutto nel vivo del suo lavoro cioè quando è in campo. Altro “andazzo” registrato in sede di commento tv è quello dell’isolamento al gomito riservato alle superstar -vedi Bosh in questa partita o Nowitzki in quella del mercoledì antecedente- per lo più dannoso per il circolamento della sfera e conseguente basso coinvolgimento dei compagni. Non vero, verissimo, ma contestualizziamo: Nowitzki sul mezz’angolo spalle-a-canestro è un arma illegale in cinque continenti e come se non bastasse ha un compagnuccio tale Terry Jason che può venrgli incontro per un consegnato/pick&roll ed a quel punto il malcapitato difensore può solo scegliere il proprio veleno. Ora applicando il medesimo concetto ai Miami Heat l’unico che non può permettersi quel piazzamento è proprio CB e per diverse ragioni: a) Bosh non è una star e non lo sa, ma se vuole un anello di certo se ne deve convincere; b) se non c’è il texano sotto la plancia di rimbalzi in attacco se ne vedono pochi (un rimbalzo contro gli hornets, UNO); c) se hai Lebron e Dwayne come compagni l’ultima cosa che vuoi fare è metterli in un angolo ad aspettare perché aiuti solo la difesa avversaria, Quindi, se la matematica non è un opinione A+b+c=d dove d) forse è più opportuno che sia Lebron protagonista di quella situazione tecnica con Wade che gli gira attorno ed Haslem e Bosh a rimbalzo. Ora trasportiamo il tutto a Toronto dove c’è il nostro Bargnani, e lui si che lo sa di non essere una star ma nei fatti è costretto ad esserlo. Pensate a quante cose belle potrebbero accadere con il “Mago” al gomito un po’ più spesso. Ed ecco infine la tendenza che più risalta e fa piacere: la new italian pride. Finalmente ci sono tre italiani al posto giusto nel momento giusto e con delle responsabilità commisurate alla larghezza delle loro spalle; del romano-canadese abbiamo già detto e magari a metà febbraio la chiamata arriva questa volta. Ma le belle notizie arrivano copiose anche dalla Grande Mela e da New Orleans. Attorno al Gallo si sta creando una squadra vera, un ambiente positivo e tutto ciò senza che il suo ruolo cambi di una virgola. Vedere finalmente Belinelli parte integrante di un progetto che lo vede come giocatore a 360° che tira, penetra, difende e ruba palla, passa, blocca è un po come la pubblicità della carta di credito: non ha prezzo. Di sicuro non siamo a cospetto di un fisico supersonico (Bargnani) né di un leader nato (Gallinari), ma di un gran bel giocatore che sa fare un pò di tutto ed ha bisogno di fiducia e minuti per farlo, quello sì. E Monty Williams l’ha capito.
Luigi Pergamo