Nei tre campionati principali maschili siamo ad un terzo della stagione regolare. Scorrendo le varie classifiche delle squadre mi ha colpito un dato abbastanza sconfortante: solo 4 squadre su 48 (16 di serie A e 32 dei due gironi della A2) hanno una percentuale ai tiri liberi superiore all’80 per cento. Si tratta della Grissin Bon in serie A (85.4) dell’Alma Pallacanestro Trieste nel girone Est della A2 (85) della Virtus Roma (82) e della Benacquista Latina (80) in quello Ovest.
Tutte le altre sono al di sotto ed addirittura ce ne sono cinque sono il 70 per cento, tre in serie A due in serie A2. Il caso più clamoroso è quello della Happy Casa Brindisi che nella massima serie viaggia al di sotto del 60% dalla linea della carità come la chiamano gli americani.
Vero è che fior di giocatori nella storia di questo sport hanno avuto pessimi rapporti con il tiro libero ma è altrettanto vero che allenatori e statistiche considerano accettabile una percentuale che sia al di sopra dell’80% perché spesso, molto spesso i liberi possono risolvere una partita e non solo nei minuti o secondi finali, ma anche nel corso di una gara indirizzandola in un certo modo. Ai meno giovani non è il caso di ricordare “Hack a Shaq” il fallo sistematico con cui gli avversari preferivano mandare in lunetta l’altrimenti inarrestabile Shaquille O’Neal qualche anno fa piuttosto che subirne i danni sotto canestro.
Quindi che il tiro libero sia un problema tecnico, tattico e psicologico lo sappiamo tutti noi che abbiamo più o meno giocato a pallacanestro a vari livelli e titoli. Ma qui parliamo di centinaia di professionisti su tre campionati ( perché al di là della facciata anche i giocatori della A2 di professione fanno i giocatori di pallacanestro) che tirano in modo scandaloso da quella linea. Facendo spesso saltare per aria i piani di una partita e settimana intere di lavoro.
Qualcuno non crede che i liberi non siano un problema di testa? Ecco servita una spiegazione da Aldo Oberto, giornalista sportivo ed allenatore di basket
“Non c’è alcun dubbio che il tiro libero sia il fondamentale individuale che presenta insidie evidenti e nascoste per la quasi totalità dei giocatori.
Questa affermazione – che può apparire perentoria e discutibile, se non campata in aria – trova riscontro in modo inconfutabile ogni volta che sono chiamato a tenere allenamenti e/o lezioni di tiro, che alleno individualmente un giocatore, che seguo allenamenti di squadre di vario livello o osservo i giocatori durante le partite.
Questa opinione personale, condivisa peraltro da molti allenatori e che trova riscontro non appena si presta attenzione all’esecuzione dei tiri liberi nel corso delle partite, è confortata da una ricerca svolta dal professor Wright della Columbia University. Lo studio, sviluppato analizzando i dati forniti dalla NBA, mette a nudo un dato significativo: dal 1959 a oggi la percentuale di realizzazione dei tiri liberi è passata dal 71% al 77% oscillando all’interno di questi estremi (mentre quella dei due punti è passata dal 34% di inizio anni ’50 all’attuale 46% e quella dei tre punti dal 28% del 1986 si attestata al 37% di oggi).
C’è una spiegazione per un incremento così ridotto in un arco di tempo così lungo? Perché l’aumento della fisicità della quasi totalità dei giocatori e, perché no, il maggior numero di ore trascorse in palestra non hanno prodotto un incremento più sensibile?
Perché, anche quando un giocatore possiede una tecnica ben definita che rende l’esecuzione del tiro esteticamente gradevole, la precisione è scadente?
Sì, la risposta c’è, si chiama emotività e, per estensione, stato mentale.
Se le capacità tecniche possono concorrere al miglioramento grazie alla “pulizia” della routine di tiro (tema non trattato da questa analisi), gli aspetti mentali rappresentano un problema assai più serio.
«Sembra facile!», recitava una famosa réclame – parola ormai desueta, surclassata dalla più moderna spot – dello storico Carosello televisivo. Già, sembra facile, ma non lo è. Tutt’altro.
Il tiro libero appare un gioco da ragazzi, semplice, semplice, ma trappole e insidie più o meno nascoste sono disseminate lungo il suo intero percorso. Il giocatore è lì, solo, sulla linea che gli americani, presagio?, chiamano “della carità”. Non ci sono avversari ad ostacolarlo. Davanti a sé ha solo il canestro, invitante, che gli strizza l’occhiolino. Ha tempo, ahimè, per pensare. Ma proprio qui si alza un muro insormontabile o, se si preferisce, si apre un baratro nel quale sprofondare. Spesso e volentieri, i giocatori non sono preparati a vivere questa solitudine intaccata non solo da fattori agonistici – stanchezza, fatica – o ambientali – tifo contro, rumori di vario tipo – ma anche, e soprattutto da quelli psicologici: stress, paura, insicurezza, mancanza di tranquillità e fiducia, instabilità emotiva, deconcentrazione, ecc….
A dispetto della sua rilevanza, gli allenatori manifestano – perché pressati da altri obiettivi?, perché più attenti al gioco di squadra? – scarsa attenzione a questo vero e proprio problema, a questo scoglio che in non pochi casi appare insuperabile. Dimenticano che questa distrazione incide sull’esito di non poche partite. Quanti risultati sono infatti originati da uno o due liberi sbagliati così come da uno o due liberi realizzati? E quanti, in particolare, sono determinati da uno o due liberi eseguiti con una manciata di secondi sul cronometro, se non a tempo scaduto, allorché la pressione sul tiratore è ancora più massiccia?
Senza sminuire l’incidenza e la rilevanza di una appropriata tecnica di esecuzione (sempre correggibile con gli adeguati interventi durante gli allenamenti), di una routine univoca non alterata da rettifiche in corso d’opera dettate dall’intento di correggere un errore, che si rivelano inutile e deleterie, è il lavoro sulla mente di ogni singolo giocatore che può portare al miglioramento.
E’ intuitivo che si tratta di un lavoro rilevante, delicato, che va affrontato con la dovuta attenzione e con cautela, non lasciato a libere interpretazioni che possono diventare un pericoloso boomerang”.