Roma, 18 novembre 2019 – Quando ormai le squadre hanno messo insieme, mediamente, una dozzina di partite, è ancora presto per stilare dei giudizi, ma è tempo di farsi una prima idea su cosa stia funzionando e cosa, invece, abbia fatto già tintinnare il primo campanello d’allarme.
Non aspettatevi scoop o cronaca spicciola, la mission di #insideout ormai la conoscete: sapete già tutto perché avete già letto di tutto, per l’approfondimento sulle singole franchigie vi rimandiamo alla nostra videorubrica settimanale #osservatorioNBA… Noi qui cerchiamo un fil rouge su quanto si muove dentro e fuori (inside-out, appunto) dal campo e di proporvi il campionato americano sotto una luce un po’ differente: facendogli, appunto, le pulci. Sotto, allora: proviamoci ancora!
Il re è tornato! E d’accordo, questo lo sanno anche le pietre, ma quello che non si sottolinea abbastanza è che LeBron James sta praticamente giocando da PG (vero è che Vogel lo aveva preventivato) e lo sta facendo da par suo, troneggiando nella classifica per assist. L’idea è di una semplicità quasi disarmante: vuoi la palla sempre in mano? Eccotela, fammi vedere se riesci a guidare la squadra. Noi avevamo pochi dubbi… L’asse con AD è devastante e intorno ad esso il supporting cast, sul quale, invece, c’era più di una perplessità, sta facendo il suo dovere; Kuzma non è ancora al top ma sta tornando… chi fermerà la musica?
Fate il vostro gioco! Le squadre che veleggiano in cima alle classifiche, insieme alle superfavorite, sono quelle, manco a dirlo, che si sono portate più avanti sul piano del gioco di squadra e della chimica: i Celtics la fanno girare che è un piacere, i Raptors hanno trovato la chiave con l’innesto di Van Vleet nello starting five, gli Heat han fatto esattamente ciò che avevamo preventivato, migliorando il gioco perimetrale senza perdere l’anima difensivistica; i Suns hanno fatto quadrato intorno alla stella, al nuovo play (finalmente uno vero!) e all’idea di gioco five out; i Twolves stanno finalmente portando Wiggins e Towns sui livelli attesi grazie ad un gioco decisamente più dinamico e moderno di quello cui ci avevano infruttuosamente abituato; e mettiamoci dentro anche i Mavs, nonostante qualche recente defiance, che ci colpirono già durante la preseason per la qualità della circolazione e per le risorse offensive e che, finora, stanno proseguendo su questa falsariga. D’altro canto, le delusioni sono da cercare tra le squadre che peggio sembrano aver integrato vecchio e nuovo, finora: Nets e Blazers sono ampiamente al di sotto degli standard attesi e ciò che più preoccupa è il modo di stare in campo di due tra le realtà più attese a fare bene; per fortuna, il tempo per rifarsi c’è (a proposito: Portland ha deciso di firmare Melo… A lui il nostro entusiasta bentornato!).
Largo ai giovani. Rookies da sballo: Morant con numeri da MJ, ma anche l’undrafted Nunn a Miami, i tanti minuti di Barrett a NY, Herro e i suoi canestri dalla panchina, Paschall ai derelitti Warriors, Williams che sta integrandosi nei Celtics. Se poi volessimo estendere il discorso ai sophomore, ci sono Trae e Luka che stanno facendo mirabilie, Graham che primeggia, o quasi, per assist e mostra flash di personalità… Insomma, viviamo un fortunato momento storico in cui i ragazzi pescati al college regalano impatto e non solo spettacolo, fin dall’esordio, o quasi. Ci torneremo, a modo nostro. E stiamo ancora aspettando Zion…
E quindi? Avete scoperto l’acqua calda, direte voi. A ragione, se non aggiungessimo un pizzico di pepe al discorso affrontando temi poco battuti o più intricati e spinosi: sotto, allora, e non in ordine sparso, bensì solo secondo mio personale gradimento e capriccio!
Il vento dell’Est. Hashimura è un ragazzo di quelli di cui si parla troppo poco: paga, verosimilmente, l’hype che circonda altri rookie e la militanza in una squadra già da tanti, troppi, condannata all’irrilevanza: che vuole, Washington, senza Wall? Cos’altro cerca, dopo aver vinto per la prima volta le World Series (tra le più pazzesche a mia memoria!)? E invece, senza pressione, si stanno vedendo alcune cose interessanti, come il ritorno di Isaiah Thomas e, appunto, l’impatto sul gioco di questo ragazzo che avevamo già avuto modo di ammirare la scorsa estate, ai mondiali, sia pure nel contesto di una squadra ben più irrilevante dei Wizards (disastroso, il Giappone). Con i limiti dettati dall’inesperienza, questo ha tutto, signori: fisicità, atletismo, esplosività, morbidezza di tocco, capacità di aprirsi, tecnica di tiro e, last but not least, margini di crescita su tutti questi fronti e pure in difesa. Occhio a snobbare le gare dei maghetti della capitale, nelle vostre notti insonni: poi, non dite che non ve l’avevamo detto!
One man bands. Da Sky fino all’ultimo sito specializzato, abbiamo trascorso l’estate a sfogliare la margherita e dar fuoco alle polveri di quella che ci era parsa la più avvenente moda di mercato: il gioco delle coppie (di superstar). Beh, l’inizio non è stato dei migliori per molte di esse, da Portland a San Francisco, da Houston a Brooklyn, passando per la sponda Clippers di Los Angeles, molte coppie appaiono, finora, scoppiate, vuoi per scarsa chimica, vuoi per scelta (eh, sì, Kawhi: ne parleremo…), vuoi per infortuni o, semplicemente, per scarsa resa di uno dei due pards. Non ci stupiamo, dunque, se chi gioca meglio o chi vede il bidente funzionare già a dovere (Lakers) se n’è avvantaggiato. Al contrario, abbiamo avuto il piacere, tutto estetico ma poco redditizio, di ammirare un mare di show personali, spesso risoltisi in losing efforts (Lillard, Russell, Doncic, Irving, Harden, Young, Leonard o George…). Le coppie stanno ancora carburando, evidentemente, e il gioco è spesso ancora troppo iso-based. Definiamolo pure un malanno di stagione, destinato a risolversi col tempo, ma il dato resta, oscuro solo agli occhi di chi non vuol vedere: fin qui, la sfanghi solo se giochi bene, non è ancora tempo di eroi. Giusto così.
La mano del destino. Curry e Green erano le sole star rimaste attive a Golden State, e tutti e due hanno subito dovuto dare forfait per infortuni alla mano, quello di Curry addirittura più serio del previsto: stagione a rischio per lui e per dei Warriors che, dopo aver fatto la storia con la loro dinastia, la riscrivono, adesso, per il clamoroso balzo all’indietro, giù fino al tanking più profondo. Per inciso, Green ha appena fatto in tempo a rientrare, che D’Angelo Russell si è fermato per via di un trauma al pollice…
Al di là del caso-limite del (ex)superteam, falcidiato dagli infortuni e declassato al rango di squadra-trash in modo inopinatamente repentino, si affastellano, negli ultimi giorni, l’altrettanto grave frattura, sempre alla mano, per il povero Hayward, proprio in dirittura d’arrivo del lungo percorso per tornare ai suoi livelli; poco prima di lui, si sono fermati Lowry (mano) e Ibaka a Toronto e, insomma, vedremo le due capofila dell’Est come assorbiranno il colpo; a seguire, mano lesionata (e trattata chirurgicamente) anche per Caris Levert (pedina fondamentale per i già altalenanti Nets), all’ennesima deviazione dalla rampa di lancio all’infermeria, lo stiramento di Middleton ai Bucks… I succitati sono solo gli ultimi in ordine temporale, ad aggiungersi ai lungodegenti (solo per citare i più celebri) Durant, Wall, Oladipo, Nurkic. Non ne ricordo, a memoria, così tanti e tanto spesso ad una mano, difficile non tenerne conto e non rimodulare le aspettative riguardo alle squadre interessate: fuori da ogni velleità retorica, non è mai un bene per il nostro sport, quando certe stagioni vengono decise dagli infortuni, mai come quest’anno apparentemente del tutto fortuiti.
Assenze colpevoli. Non ho memoria di tanti traumi alla mano, ma neppure tante, e in un così breve lasso di tempo, sospensioni per doping: si fermano Wilson Chandler (Nets), DeAndre Ayton (Suns), John Collins (Hawks) e l’incorreggibile Dion Waiters (Heat). Piovono giustificazioni (scuse?) da parte dei protagonisti, sospesi inesorabilmente dalla Lega (e non pagati!): chi appellandosi all’inesperienza, chi alla inconsapevolezza sulla natura dopante del farmaco, chi, invece, come Waiters, nulla ha potuto per sottrarsi al ridicolo (indigestione di orsetti gommosi alla marijuana: una roba che fa pensare più a Gigi la trottola che alla Lega più importante al mondo…). Coincidenze o giro di vite da parte della Lega è forse presto per dirlo, ma un segnale di sicuro è arrivato, forte e chiaro, e le punizioni risultano esemplari: non è detto che sia un male.
The wind of change: il load management. A proposito di segnali dalla Lega…La vicenda extra-sportiva che più ci ha colpito e fatto riflettere si sviluppa nel post-partita di una delle sfide sulla carta più affascinanti della stagione: Bucks-Clippers è una delle potenziali finals, quest’anno, e il richiamo è grande per tutti gli appassionati del mondo, nonostante Paul George fosse ancora lontano dall’esordio. Solo che, poco prima della gara, marca visita anche Kawhi Leonard e, sia pur battendosi da par loro, i velieri losangelini tornano a casa con le pive nel sacco. Fin qui, nulla di strano. Poi, però, Doc Rivers si lascia sfuggire che Leonard scoppia di salute, in contraddizione con quanto certificato dallo staff medico, ed ecco arrivare la multa. Anche qui, probabilmente, un segnale: Leonard ha le ginocchia malandate ma, se sta bene, Adam Silver non ammette soste.
La contraddizione non è di secondo piano, anzi: da una parte, l’immagine della stessa NBA, i suoi interessi, le televisioni, gli spettatori paganti, gli sponsor; dall’altra, lo stato di forma e la preservazione dagli infortuni e del rendimento di un giocatore decisivo, firmato per puntare dritto al titolo e bisognoso di arrivare alla post-season al top. La retorica demagogica secondo cui il giocatore è pagato per giocare sta a zero: le superstar sono tesserate e pagate per vincere e la gestione dei carichi di lavoro è parte integrante del lavoro dello staff sanitario di qualsiasi società sportiva; questa argomentazione assume una valenza cogente tanto più in una Lega che non conosce soste, o quasi, e che prevede spostamenti di migliaia di chilometri tra una gara e l’altra, determinando stress psicofisico anche nelle brevi pause dal basket giocato e comprimendo al minimo i tempi di allenamento.
Chiaro che l’improvvida dichiarazione del pur navigato coach dei Clippers induca una risposta da parte delle istituzioni sportive (eppure la vicenda Riley avrebbe pur dovuto insegnare qualcosa sul contare fino a dieci prima di rilasciare dichiarazioni a ruota libera!). A pelle, tuttavia, la nostra percezione è che Silver, come sempre, stia cercando di regolamentare tutto il possibile, al fine di tutelare gioco e immagine, usando la filosofia del do ut des: io ti vengo incontro nelle tue esigenze, ma poi, fissato un limite, sei tenuto a rispettarlo e non sono ammesse deroghe.
Questa sensazione è rafforzata dalla visione delle partite: non guardo certi dati statistici, ormai lo sapete, ma mai come quest’anno stiamo notando un gran numero di infrazioni di passi fischiate. Opinione personale: c’entra la mano del Commissioner. È ormai entrato in vigore e nella pratica il passo zero? Gli attaccanti hanno avuto un vantaggio, certo, ma da qui in avanti non si transige. Stessa filosofia adottata sui carichi di lavoro: siamo ormai alla seconda stagione in cui sono state abolite le sequenze di quattro gare in cinque giorni e drasticamente ridotti i back to back: bene, adesso chi sta bene giochi, senza guardare in faccia a nessuno.
Opinione di #insideout: se pure, sulla singola questione, si può avere qualcosa da ridire, nel complesso la strategia è quella giusta. Siamo con Silver, e non da oggi.
Definita la cornice regolamentare, ci accingiamo a tornare “inside”, perché, dal prossimo numero, il basket giocato tornerà a farla da padrone, com’è giusto che sia man mano che la stagione entra nel vivo. Conferme, smentite e nuovi protagonisti ci aspettano dietro l’angolo e noi saremo pronti a svoltarlo. Voi?
Marco Calvarese
edito by Frank Bertoni