“Panta rei” (Eraclito).
“Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” (Lavoisier).
“I fenomeni della natura sono perpetuamente in moto e in trasformazione e lo sviluppo della natura è il risultato dello sviluppo delle contraddizioni in seno alla natura stessa” (Marx).
“Ogni minima variazione viene mantenuta, se è utile…Non è il più forte che sopravvive, né il più intelligente, ma chi è più reattivo ai cambiamenti” (Darwin).
Tutto cambia costantemente, in modo talora lento e impercettibile, talora brusco e rivoluzionario: alcuni tra i massimi pensatori di tutte le epoche ce lo hanno insegnato e la teoria della relatività di Einstein credo lo abbia ormai sancito definitivamente.
Il tutto, naturalmente, è estendibile anche allo sport: la fisionomia stessa dello sportivo è cambiata radicalmente, al netto delle aberrazioni legate al profitto e al doping. Pensiamo alla differenza tra i ciclisti odierni e quelli dell’epoca di Girardengo. Lo stesso dicasi per i velocisti in atletica leggera, per i pugili ma, paradossalmente, è proprio negli sport di squadra che emerge in modo più impressionante l’evoluzione dell’atleta: inimmaginabile paragonare la struttura fisica di Platini e di Cristiano Ronaldo, o quella di Larry Bird e LeBron James: la scienza medico-sportiva è evoluta in modo esponenziale, grazie agli studi di biomeccanica, all’avvento di nuove tecnologie analitiche, conseguentemente sono cambiati radicalmente i programmi di allenamento e nutrizionali, la cura del corpo è divenuta maniacale rispetto, forse, a quella dello squisito e singolo gesto tecnico. Ne conseguono la continua correzione dei record individuali e il cambiamento delle caratteristiche del gioco negli sport di squadra. In tutti, o quasi, gli sport di squadra, il gioco è divenuto drammaticamente più veloce nella sua esecuzione, i tempi di reazione accorciati drasticamente, la potenza esplosiva ha sorpassato e rimpiazzato i più elementari principi della fisica: forza, peso e velocità, la meccanica di esecuzione ha raggiunto vette di depurazione e raffinazione tali da rendere agevole ciò che prima appariva straordinario.
Difficile, ora, stabilire se l’uovo sia nato prima della gallina: se, cioè, sia l’evoluzione continua del gioco, anche spinto dagli interessi legati alla spettacolarizzazione dello sport professionistico, ad aver causato l’evoluzione antropologica o se, invece, questa abbia conformato a sé, fatalmente, il modo di stare in campo. Credo sia questione di lana caprina: interessa, nel mio ragionamento, sottolineare che il basket (siamo tornati a noi, adesso) è profondamente cambiato, rispetto all’epoca della mia prima folgorazione (le differite NBA la domenica mattina), a quella di MJ o anche a quella di Kobe. E, proprio come recita Darwin, chi si adatta, sopravvive (mi viene in mente Brook Lopez come esempio più eclatante, se non più fulgido), chi non ci riesce, soccombe (Melo?).
Primo passo, velocità di rilascio, meccanica di tiro, tempi di reazione ed esecuzione hanno realizzato un tale balzo epocale da produrre una frattura nella storia del basket, cambiando la categoria stessa del tiro ad alta percentuale: una volta era quello più vicino al canestro, ora è quello da qualunque posizione e distanza, purché costruito rapidamente, creando vantaggio spazio-temporale rispetto a chi difende. D’altro canto, le difese reagiscono implementando la rapidità delle rotazioni, accettando i cambi di marcatura, aggredendo le linee di passaggio, aprendo l’area: se il “buon tiro” amplia la sua gittata ogni anno, fatalmente i corridoi al ferro si dilatano e la figura dell’intimidatore che occupa il centro area viene rimpiazzata dal lungo dinamico che esce in closeout o addirittura accettando i cambi sul perimetro per poi scivolare rapidamente. Lo spettacolo regalato dal gesto della stoppata ripaga l’occhio del fruitore medio come quello del competente, esalta e dà pregio al prodotto finale, guarnendo l’utile con il dilettevole.
Non ci stupiamo se il centro moderno si dimentica i pur fondamentali movimenti in low post o il tagliafuori, perché, oggi, deve saper anticipare, stoppare, correre e portare palla in transizione; l’ideale sarebbe, certo, che fosse impeccabile nei primi come nei secondi, ma ci arriveremo, vedrete.
È vero, forse, che Lowry non ha la tecnica di palleggio di Jason Williams (ne prendo due a caso, ma neppure tanto a caso), ma è la cornice tecnica e storica in cui si inscrivono, che rende meno eclatante l’esecuzione del primo rispetto alla poesia di White Chocolate (senza tener conto del fatto che le qualità fisiche del Raptor, n volte superiori, colmano gran parte del gap); è anche vero, tuttavia, che sull’altra faccia della medaglia c’è un Marc Gasol che sa fare cose inimmaginabili per il pur ottimo Vlade Divac. Siamo, dunque, così sicuri che il basket moderno abbia abbassato il livello tecnico medio per prediligere l’atletismo? Tutti san fare un po’ di tutto e il prodotto finale, magari, può far storcere il naso ai puristi del fondamentale, ma è decisamente più vario, dinamico, eccitante.
Era bello il basket giocato aggredendo l’area, cercando il post basso, l’avvicinamento al canestro? Erano intriganti le aree intasate e le sportellate infinite sotto il ferro? Era più ortodossa la pallacanestro quando il tiro da tre punti non esisteva se non nelle esibizioni dei Globetrotters e il mid range era la terra promessa per le guardie e, al più, per le ali alla Nowitzki? Altroché! Del resto, sono nato con gli “schemi L” di Dan Peterson e cresciuto con Tex Winter! Ma pensare di ricorrere a tale armamentario quando hanno scoperto che si può far canestro anche da nove metri e con buone percentuali (e non mi si venga a dire che non è tecnica anche quella!) sarebbe come andare alla guerra con le balestre quando c’è chi arma droni guidati da un satellite!
Se tutti difendono su tutti, gli attacchi, a loro volta, si adeguano incrementando in modo iperbolico il ricorso al pick and roll; è fatale: si chiama adattamento, non determinismo; così come lo era vedere triangoli dappertutto negli anni ’90, e l’importanza di un buon blocco diventa paradigmatica e può divenire patrimonio anche degli esterni, perfino dei più piccoli: Irving blocca bene, ad esempio, lo abbiamo visto a Cleveland, in parte anche a Boston, lo vedremo ancora.
Della figura nascente dei point centers abbiamo già parlato nel momento di massimo splendore di Nikola Jokic… Ovvio che, se il centro porta palla e il playmaker blocca, Stevens si spinga fino a teorizzare la liquidità dei ruoli! Arriva, del resto, in un’epoca in cui D’Antoni ha già da tempo stressato il concetto del tiro rapido, senza marcatura e da tre punti, e Steve Kerr fatto della lunga gittata una religione!
Attenzione, però: ricordate Darwin? Non il più forte sopravvive, ma chi meglio si adatta… Nessuno stupore, dunque, se, a fronte di quelle quattro o cinque franchigie che, lo scorso anno, riservavano meno del 6% delle conclusioni alla media distanza, troviamo proprio Golden State al secondo posto assoluto per canestri realizzati dal mid range: se hai QI e qualità, nella terra di nessuno puoi trovare praterie! Il tiro dalla media sta tornando, spontaneamente: Popovich ha tenuto accesa la fiaccola, ma sarà lo spirito stesso del Gioco a riesumarlo, restituendogli nuova linfa. Vedrete…
Ecco, dunque, un’altra verità: il gioco si autoregola (altro che il mercato!), i nodi vengono sempre al pettine, i migliori si adattano ai cambiamenti, trovano le contromisure, sanno scovare le pieghe in cui infilarsi per colpire i punti deboli, perfino riarrangiare i dettami del basket dei miei tempi in chiave moderna, perché non esiste il gioco perfetto, e il mix creato dall’evoluzione del gioco e degli atleti sta correndo vertiginosamente verso la mutazione definitiva.
Chi detta le regole dovrebbe, pertanto, limitarsi a governare il cambiamento accompagnandolo e tutelando, con i dovuti correttivi, giocatori e Gioco, mai imporre cambiamenti che lo snaturino!
Fedele a questo principio, trovo corretti i tentativi di regolamentare il ricorso al fallo sistematico contro atleti notoriamente poco inclini al viaggio in lunetta (hack-a-shaq rule), di sanzionare i falli di frustrazione pericolosi (Pachulia rule), punire l’astuzia antisportiva di chi cerca il fallo e poi, con maliziosa prontezza, la conclusione, lucrando liberi spesso immeritati (Harden rule). Per paradosso solo apparente, ho trovato pragmatico e fedele allo stile di gioco americano l’introduzione del passo zero, che prende atto della prassi corrente, esalta lo spettacolo, limita le interruzioni e non snatura l’azione: semplicemente, fa i conti con la realtà concreta cerando di dare certezza delle regole. Del resto, dopo tante polemiche, non mi è parso che abbia stravolto la pallacanestro (gli adattamenti di cui sopra…)!
Al contrario, trovo un abominio l’esperimento che vedrà la luce in G-League nella stagione alle porte: un solo tiro libero dopo il fallo, valevole 1, 2 o 3 punti a seconda che sia commesso su canestro realizzato, su tiro dall’area o dall’arco. Il tutto, dicuntur, nella speranza di stringere i tempi, spesso troppo prolissi, della partita: se la NBA è spettacolo (e deve esserlo), questo deve avere i giusti tempi, garantire, magari, la fruizione di più partite nella stessa serata da parte dello spettatore televisivo, dunque ulteriori incassi dai diritti. Tutto giusto, a patto, però, che non venga meno lo spirito, la filosofia del Gioco: se tento la tripla e subisco fallo, come può il singolo tiro libero valere quanto la tripla stessa? Questo sì, ha l’aria di non rispettare lo spirito del gioco, di voler minare l’aggressività delle difese, imporre stravolgimenti…in una parola: snaturare. E questo non va bene.
Il corso del tempo non può essere deviato, o per lo meno, non ancora, e questo ci costringe a seguirlo: farlo con la testa rivolta all’indietro può solo portarci ad inciampare; farlo facendo il passo più lungo della gamba, a cadere nel vuoto. Lo sport più bello del mondo e la sua più eccellente espressione non ne hanno bisogno: siamo già avviati verso il fantastico mondo del basket totale, in cui tutti san fare tutto e ogni mattonella può essere quella giusta per un buon tiro. Ci stiamo arrivando, riuscite a vederlo? Il futuro è adesso…