Il bello di scrivere sulla regular season è che sbatti via un sacco di tempo per niente. Ho iniziato a scrivere un articolo venerdì scorso, non l’ho finito, e oggi si sono giocate altre 4000 gare che rendono quanto scritto perlopiù inutilizzabile. Pazienza, siamo nati per soffrire. Riparto.
Rieccoci. Dopo il solito patema gentilmente concessoci da quei buontemponi di Sky, che come ogni anno ci lasciano a rosolare nell’attesa di comunicarci che “sì, anche per quest’anno facciamo l’NBA”, siamo pronti per ripartire. Che sarà una stagione per pochi, l’ho già detto nell’ultimo pezzo: uno scontro fantastico e all’ultimo sangue fra Miami, LA (Lakers, per chi avesse gravi problemi nel relazionarsi con la realtà…) e Boston, con qualche ospite d’onore invitato alla festa come guest stars (diciamo, a stare larghi, Orlando, Chicago, San Antonio, Dallas, Utah, e voglio giocarmi anche Oklahoma City). Le storie delle altre squadre appaiono, almeno come previsione, di scarsissimo interesse, se si esclude il balletto di Paul e Melo in cerca di nuove relazioni sentimentali.
Mi perdonerete quindi se in questo pezzo, ma sospetto anche nei successivi, mi concentrerò prevalentemente su queste squadre. Del resto, se Clips e Nets vogliono l’onore di pezzi su di loro, dovrebbero provare ad offrire argomenti più appassionanti della loro semplice esistenza (PS: ovviamente i Nets, piccati dal mio atteggiamento, sono partiti con un imperscrutabile 2-0, prima di trovare la doverosa sconfitta contro gli Heat).
[b]Sfida al vertice[/b]
Partiamo giusto da Miami e Boston, che si trovavano di fronte in una delle opening nights più attese degli ultimi anni. Tralascio il risultato, ovviamente di importanza marginale in questo momento della stagione (vince Boston, che però viene regolata la sera successiva dai non irresistibili Cavs in version Kingless, mentre gli sconfitti di South Beach si rifanno con vittoria convincente su Philly la sera dopo, e convincono ancora contro Orlando e NJ…) per provare ad analizzare le tendenze, le informazioni che possiamo ricavarne per la stagione.
Boston in formissima. Shaq a lucido, parte in quintetto per l’assenza dell’infortunato Perkins, e lo farà ancora per qualche mese. Se ci aggiungi la prima partita con la nuova maglia e l’aver di fronte la ex squadra e ben due ex partners, si trova facilmente la chiave di lettura della performance sopra media. Che poi possa bissare nella sonnolenta mattina domenicale contro i Warriors, è tutto da dimostrare. I Big three (gli originali) sono in gran spolvero, con Pierce e Allen in zona ventello, e Garnett che impartisce qualche lezione di difesa a Bosh, che nei nuovi Big two and spicci, si trova suo malgrado a far la parte degli spicci. Rondo è Rondo, e tanto basta. Da fuori non tira nemmeno su ordine scritto del Presidente, in compenso passeggia per il campo a suo piacimento, segnando e facendo contenti i compagni con passaggi alla Magic Johnson. Big Davis è sempre più convincente nel ruolo di panchinaro di impatto, mentre la vera sorpresa è il Marchese, che dopo una prima stagione abulica, mette in mostra due o tre guizzi degni del suo talento: non è abbastanza per colmare l’assenza di Tony Allen, ma è un buon inizio. In sintesi, Boston si presenta preparata, spavalda, tranquilla. In difesa si va a memoria, pur privi dell’ideatore del sistema, Thibodeau, oggi a Chicago. Certo, una cosa è la stagione regolare, un’altra gli adattamenti di una serie di playoffs, ma per il momento i bianco verdi eseguono decisamente bene, e il duo KG e Shaq sotto canestro (difensivo) fa paura. In breve, Boston è una piacevole sorpresa: non c’è aria di dismissione, rassegnazione, complessi di inferiorità; decisamente lo spirito giusto per partire.
Andando a guardare la situazione di Miami, risulta evidente che siamo all’opposto. Complice qualche infortunio e le scelte dell’allenatore, i tre Caballeros hanno giocato insieme un totale di 4 minuti in preseason, e si vede tutto. Un sacco di palle parse (8 del solo James), brutte percentuali al tiro, forzature, poco gioco di squadra. Neanche schemi eseguiti male, nessuno schema! L’unico abbozzo di idea strutturata è mettere la palla in punta in mano a James, e far tagliare a pendolo Wade sulla linea di fondo: un po’ pochino per essere nell’NBA. Al momento Spoelstra sembra preferire per il quintetto Anthony e Arroyo a Haslem e Chalmers, ma non sono convinto che la cosa sia destinata a durare. In entrambe le configurazioni comunque gli Heat sembrano troppo leggeri per battagliare con i lunghi di Celtics e Lakers, ma anche solo per Dwight Howard. Magloire, imbullonato alla panchina, sembra poter garantire stazza, ma difficilmente atletismo, e di certo non pallacanestro. E pensare che aveva fatto l’ASG. Nonno Howard (Giuàn, per gli amici) appare ancora in bacino di carenaggio, probabilmente verrà speso più avanti. Ilga ha centimetri e tocco dalla lunga (immarcabile per Shaq fuori area), Haslem tecnica e voglia ma non i centimetri, Bosh ha giusto l’atletismo, ma né la tecnica, né il vigore. Insomma il pacchetto di lunghi di Miami (Bosh, Haslem, Anthony, Howard, Magloire) non sembra assolutamente all’altezza di quello delle altre contenders. Il paragone con LA (Gasol, Bynum, Odom, Ratliff) e ancora di più con Boston (Garnett, i due O’Neal, Perkins, Davis) appare blasfemo. Per tamponare occorre un sistema difensivo molto organizzato, cosa che al momento è ben lontano dal palesarsi. I momenti migliori degli Heat sono in maniera piuttosto imbarazzante quelli in cui fanno finta di essere gli Heat dello scorso anno (con Wade in campo) o i Cavs dello scorso anno (con carta bianca a James). Certo, questo ha i suoi vantaggi: nelle serate in cui una delle due stelle è in serata no, lo levi e dai spazio all’altro, che inserisce il pilota automatico e ti fa succedere belle cose: 30ello di James contro i Celtics, e 30ello di Wade la sera successiva; la staffetta può anche essere una bella soluzione per la RS. Più avanti non credo. E se i due (ex) duellanti in qualche modo si arrabattano, chi viene fortemente penalizzato dalla mancanza di gioco organizzato è Bosh. Certo, per un lungo è più difficile prendersi i tiri se non glieli costruiscono, e trovarsi alle spalle Garnett alla prima uscita stagionale è garanzia di poco divertimento. Gli Heat però hanno cercato Bosh poco e male (servendolo spesso in situazione statica e troppo lontano da canestro). Passare da un contesto dove tutta la squadra gioca per servirti ad ogni azione ad uno in cui conti poco o niente non è facile, ma nella mia immagine ideale di questi Heat, si va a ripetizione da CB4 (ora CB1) a inizio primo e terzo quarto, e gli si fanno fare una ventina di punti, sperando che il ragazzo poi abbia buon cuore e almeno finga interesse in difesa (sul testosterone, temo non sia in grado nemmeno di fingerlo). Sempre a proposito di tendenze, sembra che l’idea di Spoelstra sia di mettere subito la palla in mano al Re, e far dirigere a lui le cose, mentre Wade fa movimento e si prepara a ricevere. Premesso che James è una signora point forward, e che nessuno sano di mente si sognerebbe di mettere un attacco nelle mani Arroyo o Chalmers, io personalmente sonderei anche l’altra opzione, palla in mano a Wade e Lebron che riceve in movimento mentre taglia in area, esce da un blocco, o si mette spalle a canestro in post basso. Non è certo che la soluzione sarebbe migliore, ma a me piacerebbe provarla, in modo da poter giocare in entrambi i modi, e avere una carta tattica in più per girare le partite. Insomma, la prima impressione è che Miami non solo sia un cantiere aperto, ma che stiano iniziando adesso a mettere le prime recinzioni. Non è allarmante (in fondo giocano insieme da un mese), ma dà la misura della quantità di lavoro che la squadra della Florida deve ancora fare.
Come sottolineato dai prodi Buffa e Tranquillo, anche il clima in campo non sembrava idilliaco: dopo le prime smargiassate da compagnoni, sembra che il trovarsi a dover fare sul serio, con tutta la lega e il pubblico contro, e senza la minima possibilità di errore abbia un po’ agitato questi ragazzi, che devono ancora abituarsi a convivere con tutto questo. Niente incroci di sguardi, poche parole, non un grande atteggiamento. A onor del vero va però registrato che, pur con i difetti sopra descritti, la squadra ha già dimostrato quella forza di carattere tipica delle squadre di Riley: pur in una situazione difficile, con le cose che non funzionavano, e con davanti una squadra (almeno per ora) palesemente più forte, la tentazione di arrendersi e pensare alla gara della sera dopo era forte. E invece Wade e compagni ci hanno creduto fino in fondo, arrivando fino a -5 nel finale, e dando una prova di carattere che fa ben sperare. Sul discorso “ingresso in campo di Riley”, anche in confronto con il prequel di questo film girato nel 2006, al momento la mia impressione è che la squadra sia più allenabile di quella del 2006, più organica come componenti, ma molto più indietro come preparazione; se a questo si aggiunge che il pur valido Spoelstra è di certo meno preparato di VanGundy, il ritorno di Riley in panchina mi sembra decisamente scritto nelle stelle. Quello che potrebbe impedirlo è una rapida presa di coscienza e di leadership da parte di Wade e James, che dia garanzie al Capo che i ragazzi si sanno gestire da soli (almeno dal punto di vista emotivo, da quello tecnico ci pensa bene il caro Erik).
Le partite successive (tutte e 3 vinte dagli Heat) aggiungono poco a questa analisi. Due (“Phila e affondi” e i Nets) sono poco provanti per il poco spessore delle avversarie, mentre quella attesissima contro i coinquilini della Florida si è conclusa con un massacro nei confronti dei Magic. Lato Magic va però dichiarata una serataccia del reparto dietro, che ha pesato troppo sui soli 70 punti realizzati. Lato Heat invece non ha fatto che ribadire l’ovvio, ovvero che la difesa è (spero solo per il momento) impostata principalmente sugli anticipi (con Wade e James grandissimi interpreti della specialità), e che quando questo funziona si parte in contropiede, dove la premiata ditta Dwyane-Lebron può dire la sua. Non è una brutta cosa, ma se vuoi vincere il titolo, questa può essere al massimo la base da cui partire, non certo il punto di arrivo.
[b]… nel frattempo, ad Ovest …[/b]
Con un balzo sull’altra costa, ci troviamo subito alla corte dei campioni in carica, che affrontano per la opening night i Rockets. Certo, la strategia di lungo periodo dei biancorossi sembra che la curi Murdock dell’A-Team, con arrivi e partenze a porte girevoli, senza un’apparente criterio. Dentro Artest, fuori Artest, dentro Ariza, fuori Ariza, arriva Martin e se ne va il derelitto TMAC, il centrone cinese sempre perno della squadra, ma può giocare solo 20 minuti (certo, ma se la tua stella gioca solo 20 minuti, in che modo si gioca negli altri 20? Si stravolgono i concetti offensivi e difensivi della squadra, che sono pensati su di lui?), allora prendiamo Miller per coprirci. La squadra ad oggi si regge più che altro su Brooks (fantastico, ma molto discontinuo) e Scola (fantastico e basta, e sempre più protagonista). Contro questi Rockets dalle mille contraddizioni, dei Lakers pigri e svogliati ritirano gli anelli dal Grande Capo, e iniziano la loro stagione. Alla fine si vince allo scadere (tripla di Blake) e i gialloviola cominciano a vedere cosa gli è arrivato di buono in estate. Loro sono chiaramente la squadra più forte al momento, insieme da tanti anni, completi, profondi, hanno Kobe (il che di solito aiuta), ma per non farsi mancare niente hanno imbarcato al posto di Farmar, Blake, Barnes e Rathliff. Blake viene gettato subito fra i leoni, mette qualche tripla importante nell’ultimo quarto (coadiuvato dall’ottimo Brown, che sembra maturo per il ruolo di panchinaro di impatto) e si prende anche l’onore/onere dell’investitura del capomastro. E’ Kobe in persona che sull’ultimo possesso rinuncia a tirare e scarica fuori dall’arco per il biondino, che raccoglie, ringrazia e insacca per la vittoria. Non male come prova di forza. Nell’attesa che le condizioni del ginocchio di Bryant migliorino. Odom intanto festeggia l’ottimo stato di forma dovuto all’estate di attività in Turchia, mentre Gasol ogni volta che lo vedo mi sembra più forte. La tecnica e l’intelligenza cestistica ci sono dalla sua prima gara nella lega, il fisico (e l’esperienza nel saper usare quel fisico) c’è da due o tre anni. A questo si è aggiunta la sicurezza e la spregiudicatezza che derivano dell’esperienza ad alto livello, ma probabilmente anche dal contatto continuo con il compagno di spogliatoio che sulla sicurezza in sé potrebbe insegnare qualcosa anche a Indiana Jones. Le partite successive non hanno richiesto altrettanto impegno, e dei sonnacchiosi Lakers (con Gasol in evidenza) hanno schiantato Phoenix e Golden State, nell’attesa di vedere se nel cortile del West ci sia qualche altro bambino che venga giù a giocare con loro. Staremo a vedere.
Vae Victis
Carlo Torriani