E’ finita.
Miami gioca la terza finale in 3 anni, vince la seconda consecutiva, e LeBron reclama il secondo titolo consecutivo di MVP delle Finals.
La scorsa settimana vi raccontavo del mio scarso entusiasmo verso i primi 3 episodi della serie: soprattutto gara 2 e 3 erano durate di fatto 24 minuti ciascuna, prima che eventi più o meno episodici le trasformassero anzi tempo in 2 blowouts.
Diciamo che da gara 4 la situazione (fortunatamente!) è completamente cambiata.
Gara 4 e 5 sono state segnate da due prestazioni individuali clamorose di Wade e Ginobili: di nessuno dei 2 si può dire che abbia vinto la gara da solo (a questo livello non sarebbe stato possibile), ma certamente entrambi hanno fatto la differenza, con una partita che ci ha riportato indietro di qualche anno, quando questo tipo di prestazioni per loro erano la regola e non certo l’eccezione.
Gara 6 è stata un crescendo di emozioni, eroismi, errori banali e grandi giocate, colpi di scena che hanno perfino richiesto un supplementare per certificare che Miami avesse ancora diritto di sperare. E poi gara 7, evento già epico in sè, lo è ancora di più se avviene in finale, se è in assoluto l’ultima partita della stagione. Tirata, combattuta, sofferta, tesa e contratta, decisa negli ultimi possessi. Sinceramente si fa fatica a immaginare qualcosa di più.
Gli infortuni hanno avuto un ruolo fondamentale in questa serie: Wade con ginocchia malandate e autonomia molto limitata, ma anche Parker con la coscia in fiamme da almeno due serie, passando dai lungo degenti come Mike Miller, un rallentato Manu (non si sa fino a che punto per età e quanto invece per infortunio). Alla fine però, grazie anche alla distribuzione abbastanza equa degli infortuni tra le due squadre, non mi sento di dire che abbiano avuto un peso particolare sul risultato finale: è semplicemente il rimpianto di non aver potuto vedere questo spettacolo con tutti gli attori al 100%.
Ed ora, con uno sforzo di originalità pari a quello di uno sceneggiatore del Grande Fratello, andiamo con le Pagelle delle Finals.
SanAntonio Spurs
Tony Parker: 8. Semplice e fredda media aritmetica tra un inizio di serie da 10 e un finale da 6. Non ne aveva più; Popovich ne ha ridotto il minutaggio drasticamente, sperando che così facendo avesse qualcosa da dare nei finali, ma purtroppo così non è stato. Rimane il fatto che il francese abbia una capacità soprannaturale di andare al ferro nel traffico, qualità che ha da sempre, ma siamo ancora in attesa che ci sveli il trucco. Ormai ha aggiunto però 2 cose clamorose: la prima è la sicurezza, la clutchness, la capacità di fare la giocata giusta nel momento che più conta, fosse anche un tiro da 3, che non era (e non è!) la specialità della casa. La seconda, forse ancora più importante, è la capacità di passare la palla ai compagni: le sue doti eccezionali di penetratore si completano così con quelle di trovare il compagno libero dopo gli adeguamenti della difesa. Come ho già avuto modo di dire, credo che Parker sia l’esempio più luminoso di cosa voglia dire entrare in un organizzazione come quella degli Spurs: se invece che in Texas fosse finito a Golden State, o Sacramento, probabilmente non avremmo un giocatore molto diverso da Monta Ellis: dopo 10 anni di Spurs invece possiamo salutare il quasi MVP. Onore al merito, suo e dalla migliore organizzazione della NBA.
Tim Duncan: 8. Timoteo c’è. Sempre, o quasi, non ostante 37 anni di botte sotto i tabelloni NBA. Non può più essere il fulcro dell’attacco dei suoi come 6-7 anni fa, perchè non ha più abbastanza energia per farlo. E probabilmente anche perchè l’NBA è cambiata così tanto in questi anni come regolamenti, ma soprattutto come adeguamenti ai nuovi regolamenti (soprattutto circa la zona) e come diverse capacità atletiche dei suoi interpreti, che forse oggi non sarebbe più possibile a nessuno costruire un attacco partendo solo dal post come facevano gli Spurs con lui nei primi anni 2000. Clamoroso in difesa, in attacco è stato il meno ondivago dei suoi, completando il tutto con una partita epica sopra i 20 punti anche in gara 7, seppur macchiata dai due tiri sbagliati sull’ultimo possesso Spurs, che li ha condannati alla sconfitta. Perfino la sua maschera di ferro ha lasciato trasparire l’emozione, per la prima volta in 15 anni, quando ha picchiato con le mani a terra per sfogare la propria rabbia e frustrazione. Peccato non abbia potuto chiudere la carriera con un titolo, ma almeno nel suo caso fortunatamente la sorte aveva già provveduto copiosamente in passato (a differenza del mio caro Stockton, o Barkley, Malone, Ewing, Miller, etc).
Manu Ginobili: 7. E il 7 arriva per tenere conto dell’eroica gara 5 e del fatto che, non ostante tutto, il Narigon non ha mai smesso di provarci, si è assunto tutte le responsabilità, e ha lasciato sul campo TUTTO quello che aveva. Peccato solo non fosse molto. Terribile al tiro, non indimenticabile in difesa, ha lasciato veramente il segno solo in penetrazione, dove appena riusciva donava scariche di vita e orgoglio ai suoi, cercando di suonare la carica. In costruzione di gioco è stato buono (come sempre), ma soprattutto nel finale ha sbagliato troppi passaggi, andando a pareggiare (in negativo) quanto di buono aveva fatto in precedenza. A lui il merito in gara 7 di aver capito che l’unico modo di attaccare la difesa degli Heat in stato di grazia era alzare il ritmo e attaccarla prima che si schierasse. In questo modo ha prolungato fino ai minuti finali una partita che rischiava di finire molto prima.
Kawhi Leonard: 10. Solo qualche numero: 22 anni, secondo anno nella lega, 14 punti a gara col 51% dal campo e 11 rimbalzi. Non male no? Ah, dimenticavo di dire che ha marcato per tutta la serie uno dei 5 giocatori più forti della storia del gioco. Si poteva fare peggio, no? Certo, ci sarebbe anche il fatto che tradisce meno emozioni di un giocatore di poker, e che è diventato la prima opzione dei suoi nei momenti di crisi, ripagandoli per altro con giocate di efficenza inesplicabile. E’ nata una stella? Pippen è tornato? Certo, in costruzione di gioco non vale un decimo dell’airone dei Bulls, ma considerando che in tutti gli altri aspetti di gioco è almeno paragonabile già oggi, e che ha solo 22 anni, io mi sento ottimista…
Danny Green: 7. From Zero to Hero to Zero. 5 gare di finale incredibili, record di triple a segno in finale rubato a Ray Allen (Allen, eh, non Luc Longley…), percentuale sopra il 65%. Troppo bello per essere vero. E infatti nelle ultime 2 gare è stato l’ombra di sè stesso, il canestro è divenuto un miraggio irraggiungibile e il ragazzo ha perso fiducia. La difesa degli Heat, sfruttando il calo di percentuali al tiro, gli ha concesso ripetutamente la penetrazione, costringendolo a reinventarsi palleggiatore, cosa che Green assolutamente non è. Dire che è scarso ovviamente non è giusto e nemmeno vero, certamente bisogna ridimensionarne la percezione. Resta comunque un ottimo difensore e un’eccellente tiratore (non che se la tua percentuale non è più 70% ma SOLO 45% diventi automaticamente scarso!), credo debba lavorare per diventare un penetratore almeno accettabile, in modo da completare il suo gioco e diventare più pericoloso. Per sua fortuna è nel posto giusto per poterlo fare. SanAntonio ha comunque trovato un ottimo comprimario per le stagioni a venire.
Panchina: 7. Si distinguono Neal, autore di alcuni canestri irreali da fuori, soprattutto all’inizio della serie, e Diaw, che come al solito alterna indolenza da mani in faccia a giocate da unto del signore. Splitter gioca poco, di fatto in questa serie non c’è tatticamente spazio per lui. Regala qualche buona giocata, ma l’impiego è stato troppo limitato per darne una valutazione completa.
Tmac in finale, con solo qualche minuto di garbage time e senza nessun merito, sinceramente mi riempie di tristezza…
Miami Heat
LeBron James: 9. Serie meravigliosa, il più completo e continuo dei suoi, a tratti dominante. Perchè non 10? Perchè ha iniziato piano, e perchè ancora una volta non è stato perfetto nei finali. Certo, ha preso e messo di autorità il piazzato che ha sigillato la vittoria in gara 7, ma in gara 6 ha sbagliato 2 volte il tiro del pareggio, oltre a disseminare il quarto quarto di tiri al ferro sbagliati nei momenti cruciali.
Insomma, vorrei tranquillizarvi: nella mia personale valutazione il figlio di Akron è comunque più forte di me; però non è ancora arrivato alla perfezione. Seppure quest’anno abbia fatto ulteriori passi avanti. In difesa ormai abbiamo raggiunto il Valallah. Impenetrabile per il suo uomo (che spesso è stato Parker, ovvero uno che con quel fisico non dovrebbe essere in grado di marcare), quest’anno ha aggiunto la capacità di roaming per il campo in cerca della palla che in passato era appartenuta a Kobe o Iverson. Con la differenza che, essendo lui un androide, riesce a essere efficace raddoppiando e intercettando qua e là MENTRE tiene il suo uomo, e non disinteressandosene palesemente come i due citati prima. Cuore, mente e braccio della difesa più efficace della lega.
Dwyane Wade: 8. In questi playoffs, così come nei precedenti, ho odiato Wade. Indolente, disinteressato, ininfluente, scarso. Poi ogni tanto un flash, 2 giocate, 5 minuti, un quarto, 1 intera partita in cui torna ad essere dominante. E se ci fai caso sono proprio quei momenti in cui, senza il suo intervento, partite e serie sarebbero terminate male. Sono arrivato alla conclusione che non possa essere una coincidenza. La condizione fisica precaria gli mette a disposizione un budget di minuti molto limitato, e lui se li gioca solo quando è indispensabile. Certo, ma quale essere umano può essere in grado di accendersi e spegnersi in maniera così netta? Noi chiamiamo LeBron l’androide, ma questo fa più paura. Voglio dire, spegnersi a comando è facile, ma riaccendersi non è così scontato. E soprattutto, tu puoi aumentare a comando l’impegno che ci metti, ma che il risultato sia così travolgente dopo minuti, partite, settimane in cui di fatto non giochi, non è per forza scontato. Al di là della clamorosa gara 4, e dello sforzo messo nei primi quarti di ogni partita, quando era ancora fresco, a me ha colpito soprattutto in gara 7: 24 punti, ma in generale non una performance offensiva indimenticabile: gli Spurs gli concedevano programmaticamente solo il tiro da fuori, che sembrava non destinato ad entrare. E allora il grande campione diventa utile in altro modo: una gara difensiva da all star, unita ad una prestazione a rimbalzo chamberlainesca, 11 rimbalzi, la maggior parte dei quali in attacco, per un giocatore che non arriva a 1,90 è qualcosa di clamoroso. A proposito: è un impressione mia, o lui e LeBron ormai si stanno vistosamente sulle balle? Li avete notati anche voi quegli sguardi di fuoco in gara 6, quando in contropiede non si sono reciprocamente passati la palla e hanno entrambi sbagliato? Sono troppo intelligenti e desiderosi di vincere per non capire che l’altro è indispensabile per raggiungere il sommo traguardo, ma mi sembra che lo slancio da amiconi che ha dato il via al tutto si sia un po’ perso col tempo…
Chris Bosh: 8. Tutto il male che si può pensare e scrivere di Bosh l’ho già pensato e scritto. E continuo a essere di questa opinione. Ho anche però detto più volte che la caratteristica del vero campione è, nei momenti più critici, saper fare nel miglior modo possibile quello di cui la squadra ha bisogno in quel preciso momento, anche se non è nelle tue corde, anche se non è quello che sai fare meglio. Ecco, per tutta la stagione, ma in maniera eclatante nelle ultime gare delle Finals è esattamente quello che ha fatto Bosh. E’ stato prima di tutto un difensore eccezionale, capace di grande velocità orizzontale per collassare sull’uomo a centro area, come predicato dai dettami di Spoelstra. Non è stato necessariamente un grande stoppatore (anche se qualche soddisfazione se l’è tolta), ma ha sempre chiuso gli spazi con tempismo e precisione millimetrica, permettendo così ai velenosi esterni di arrivare in tempo per raddoppiare e rubare palloni. Non è nemmeno andato sotto contro Duncan, ovvero uno dei 3-4 migliori giocatori di post basso nella storia del gioco. Certo, Duncan ha comunque segnato, ma Bosh non ha mai fatto figuracce, e soprattutto il caraibico si è dovuto sudare ogni canestro fatto. Non si è cioè verificata quella situazione che sarebbe diventata insostenibile per la difesa della Florida, ovvero che si materializzasse l’equivalenza: palla al 21 in post=canestro facile. E’ stato anche clamoroso a rimbalzo, soprattutto nei momenti chiave, come il rimbalzo al termine dei regolamentari di gara 6, che ha permesso a Allen di completare la sua parte di miracolo. In attacco, se escludiamo i 20 punti di gara 4, è stato pressocchè un non fattore: ha tirato poco, e piuttosto male. Ha però svolto degnamente il suo ruolo tattico, ovvero essere ( o minacciare di essere) pericoloso da fuori, portando fuori il suo uomo e liberando l’area per le penetrazioni (e scarichi) di James e Wade. Tanto di cappello quindi ad un giocatore che ha avuto la voglia, la pazienza, la costanza e l’intelligenza di reciclarsi completamente, violentando il suo talento e le sue capacità per diventare quello che la squadra necessitava. Solo una domanda: se alla fine serviva qualcosa come Tyson Chandler, perchè non hanno provato a prendere Chandler (o qualcosa di simile), invece che il suo esatto opposto e poi provare a riconvertirlo? Comunque hanno vinto, bravi loro e io non capisco niente. Intanto i miei complimenti a Bosh.
Mario Chalmers: 7. Non brillantissimo nei primi 2 turni di PO, decisamente sottotono contro i Pacers, l’alaskano sembra aver tenuto il meglio per le Finals. Un’ottima gara due e una rispettabilissima gara 7 sono stati i punti più alti di una serie in cui RIO ha portato il suo contributo. In difesa non gli si chiedeva tantissimo, visto che Parker è stato spesso dirottato su altri (soprattutto LeBron), sarebbe stato auspicabile comunque un suo maggior rendimento in attacco e una maggior costanza, considerato anche che ormai si può definire un veterano. Come mi dicevano sempre a scuola: buono, ma potrebbe decisamente fare di più…
Ray Allen: 8. Quando ha lasciato Boston non ho condiviso la sua scelta, per 3 motivi: 1, non mi piace chi lascia i compagni. 2, non convincevano le motivazioni: me ne vado perchè a Boston mi fanno giocare da sesto uomo, mentre io voglio essere più protagonista (certo, e allora vai a Miami a fare il protagonista!?). 3, non mi piace chi sale sul carro del vincitore, per mettere in bacheca un altro anello senza esserlo troppo meritato. A 10 mesi di distanza, devo ammettere che, non ostante il dolore di non vedere più the Candyman evoluire in maglia biancoverde, ha avuto ragione lui. Evidentemente Ray si era reso conto di non poter essere più uomo da quintetto (e soprattutto da 35 minuti a partita), ma non era disponibile a cambiare ruolo nella squadra in cui era stato il titolare, specie mentre i compagni di avventura restavano in quintetto. In un contesto del tutto nuovo come quello di Miami la cosa era invece comprensibilmente più digeribile. E poi di Allen a Miami tutto si può dire fuorchè che non sia stato un protagonosta: gara 7 non è andata benissimo come realizzazioni, ma a gara 6 sono sopravvissuti grazie ad un suo tiro che è già pronto “for the ages”, allo scadere andando indietro e mirando esattamente la linea da 3 col cronometro che ticchettava. JR Smith e Crawford sono stati i papabili per il premio di sesto uomo dell’anno della regular season, mischiando spettacolo e soprattutto volume. Nei PO, quando invece i canestri “non si contano, ma si pesano”, qualcuno ha in mente anche solo un altro candidato per il premio di sesto uomo? Con lo spostamento a Miami Allen si è regalato la possibilità di essere decisivo per due anni altre il limite che gli aveva tatuato sopra madre natura.
Panchina: 8. La costanza non è stato il punto forte della panchina di Miami (anche perchè se fossero forti E costanti, sarebbero in quintetto!), ma la sua abbondanza ha permesso che a turno tutti abbiano dato il proprio contributo. Birdman, fantastico contro Indiana, è scomparso per mezza serie, per poi tornare nel finale con minuti di qualità, non a livello cerebrale, ma di energia portata alla causa. Miller e Battier si sono alternati con Allen, in modo che almeno uno dei tre a turno assicurasse agli Heat un congruo numero di triple sugli scarichi, e probabilmente resteranno nella memoria 2 cose: la tripla senza scarpa di Miller in gara 6, e la dichiarazione di Battie che, risvegliatosi dal torpore giusto in tempo per gara 6 e 7, ha avuto la classe di dire che, se non puoi essere forte, cerca almeno di avere un buon tempismo. L’epitome del role player veterano NBA. Quello che fa la differenza.
Allenatori
Guardando alla direzione tecnica, direi sostanziale pareggio fra le due panchine. Il livello di letture, adeguamenti, preparazione e disponibilità a sperimentare è stato egregio da entrambe le parti. E se lato Pop questa è solo una gradita conferma, lato Spoelstra è un riconoscimento notevole di valore, l’aver giocato ad armi pari con la vecchia volpe Texana.
Signori, nel complesso una bellissima serie, di altissimo livello e con grandissimi protagonisti. Ha vinto il più forte (giusto) e l’ha fatto di misura (giusto anche questo, considerando la scarsa differenza di valore tra le due squadre). Dall’anno prossimo si aprono nuovi scenari, perchè LeBron smetterà di confrontarsi (solo) con le altre squadre e inizierà, come gli compete, a confrontarsi con i grandissimi della storia, per reclamare il posto che merita.
Vae Victis