Come cantavano i Blues Brothers, torniamo a Miami, per una gara 7 difficile ma non impossibile da pronosticare, se è vero che i Pacers sono la squadra più ostica e indigesta agli Heat, da quando i Boston Celtics per “nature decision” non sono più dei contendenti seri al trono della Eastern Conference.
Gli Heat col primo match-ball sulla racchetta si presentano a Indianapolis nelle peggiori condizioni psico-fisiche. Mentalmente – dopo le 5 precedenti gare sembra davvero troppo – impreparati all’ondata Blue&Gold, come recita la maglietta indossata da tutti gli spettatori della Bankers Life Fieldhouse. Fisicamente la squadra è scarica. Si pensa al LeBron James di gara 5, quello che tra punti e assist ne ha fatti 20 in 12 minuti, contro un totale di 13 della squadra avversaria, ma la performance di quel terzo quarto non è replicabile.
LeBron si tiene per l’ultimo periodo, provando a ripetersi, ma a dominare il clutch-time stavolta sono West, Hibbert, George & c. Spoelstra pesca dalla manica firmata l’asso Mike Miller, già decisivo nelle Finals dello scorso anno quando, arrancando per il campo, mise canestri poi determinanti per la vittoria dell’anello. Il jolly il coach filippino se lo gioca invece ora, e Miller lo ripaga con due triple consecutive. Il parziale c’è e Miami torna sotto, ma come si direbbe nel football americano, produce solo un “losing effort”, uno sforzo non sufficiente a colmare il gap ed evitare di tornare in Florida per un’insidiosissima gara 7.
Indiana non ha nulla da perdere, se mai l’ha avuto un gruppo con talento medio davvero basso, ma che deve avere dentro, per forza, qualcosa di superiore. Qualcosa che riesce a spingere la squadra di Vogel oltre i propri limiti tecnici, che sono tanti ed evidenti. Pochissimi trattatori della palla, passatori assenti e palle perse a go-go. Il bello, non per Miami, è che la loro pallacanestro “sporca”, non bella, intensa, riesce a coinvolgere anche gli avversari che ancora non sono riusciti a venirne a capo. Giocare in casa la partita decisiva per l’approdo alle Finals è sicuramente un vantaggio, per quanto l’American Airlines Arena non è conosciuta come un campo tra quelli più caldi della Lega, ma la pressione che gli Heat si portano dietro potrebbe diventare insopportabile.
In gara 6 è mancata la presenza sotto canestro di Andersen, squalificato per una partita, e decisamente a suo agio nel marasma creato ad arte dai Pacers. Tornerà questa notte e la sua energia e il suo impatto uscendo dalla panchina forniranno a James un partner ideale soprattutto per gli scarichi dopo le sue scorribande nel pitturato, visto che da Bosh e Wade sta arrivando davvero poco, se non niente, come nel caso di Ray Allen che conferma – già visto nelle ultime stagioni a Boston – di vivere momenti di scarse percentuali a quel tiro da tre punti che l’ha, giustamente, issato a recordman ogni epoca dell’NBA e a teorica arma illegale dopo il mercato estivo che l’ha visto protagonista del passaggio alla corte dei Big Three. Chalmers e Haslem sono gli unici che negli ultimi episodi della serie hanno saputo, a modo loro, portare contributi tangibili alla causa. Questa latitanza del supporting cast ha fatto dichiarare a James, dopo gara 5, di essersi sentito come ai tempi di Cleveland, tradotto: solo contro tutti. Non un bel segnale, assolutamente. E intanto San Antonio gongola…