Per chi come il sottoscritto non ama particolarmente le telecronache di Flavio Tranquillo, immancabile voce di Sky quando passano in chiaro i San Antonio Spurs, il 3-0 sui Grizzlies non è certo una gran notizia, considerato che dalla prossima stagione avrà nuovo materiale per sminuire il lavoro degli altri team ed esaltare i “suoi” texani bianco-argento.
Diciamoci comunque la verità: se, come ampiamente pronosticabile, i ragazzi di coach Popovich dovessero volare alle Finals, lo farebbero meritatamente, con buona pace di chi reclama dei Playoffs con troppi assenti già solo nella West Conference, su tutti Kobe e Gallinari. Dopo il 4-0 rifilato a degli impalpabili Lakers e il 4-2 ai danni dei Warriors, meno recidivi ma sfortunati negli accoppiamenti difensivi, Memphis era, sulla carta, la squadra più ostica da dover affrontare, forte di aver appena sonoramente eliminato i Thunder, favoriti numero uno per un posto in finale di Conference. Eppure, nemmeno il più sfegatato tifoso Spurs avrebbe potuto preventivare una serie così breve.
Ecco allora che, come già successo negli ultimi 15 anni, in tanti si sono voltati indietro riscoprendo come San Antonio resti l’evergreen per eccellenza di questa NBA, una squadra ancora troppo giovane dentro per poter sentire parlare di rifondazione, forte di un Duncan che pare appena uscito dal college, di un Parker ai livelli di cinque anni fa (l’ultimo anello vinto dagli Spurs) e di un Ginobili che perde sì capelli ma mai un colpo quando serve, senza dimenticare un supporting cast che, magari mai vedrà la propria maglia appesa nel palazzo, ma che certo continua a fare la differenza anche a questi grandi livelli (anche se la meccanica di tiro di Bonner rimane lo stesso improponibile).
Ai meriti dei texani vanno aggiunte, però, le pecche degli avversari, su tutte la mancanza di uno scorer di razza che abbia saputo trascinare i suoi compagni quando anche gli Spurs hanno faticato a trovare la via per il canestro. Se si esclude gara-1, dominata senza problemi dai padroni di casa con un surreale 48% dall’arco, le successive due sfide hanno messo in luce i tanti errori difensivi dei Grizzlies che nel tentativo di arginare il duo Duncan-Parker hanno spesso omesso la copertura sugli esterni, stessa dimenticanza ripetuta inoltre sulle rapide transizioni guidate dal play francese. In fase di attacco poi, alla mancanza di un leader, si è aggiunta una cattiva gestione dei 24 secondi tra catch-and-shoot immediati e tiri forzati sulla sirena, merito questi ultimi di una saggia distribuzione in campo degli uomini di Pop, anche se è chiaro che è in queste situazioni che la mancanza di due giocatori quali Gay e Mayo si fa sentire molto. Impossibile poi non citare Bayless dimostratosi inadatto nella gestione della singola azione e Prince, visibilmente in fase calante e non più in grado di fare vera differenza in difesa.
Per quanto la serie non è ancora conclusa (e si potrebbe discutere se agli Spurs non convenga forse chiuderla in 5 visti i tanti giorni di riposo che le spetterebbero in caso di sweep), coach Hollins può decisamente ritenersi soddisfatto del lavoro compiuto, avendo portato il proprio team ad una meta quasi impensabile, anche dopo una stagione vissuta con estrema qualità e un record di tutto rispetto. Gli Spurs, però, si sono dimostrati ancora una volta i più forti, limitando la coppia Randolph-Gasol e isolando così Conley, un’asse che fin qui aveva portato sempre grandi numeri e soprattutto vittorie, ma che ha dovuto fare i conti con un sistema impeccabile che, aldilà dei tirati risultati finali e dei due supplementari giocati, non ha mai perso il controllo della serie.
Per gli amanti della pallacanestro, questa è pura sinfonia.
Michele Di Terlizzi