Come annunciato sabato, ecco la seconda e ultima parte dell’intervista a Chiara Zanini. La stazione è vicina, ma c’è ancora tanto da vedere fuori dal nostro finestrino.
Se avessi tutta la storia NBA a disposizione, qual è la partita, momento che vorresti vivere dal vivo?
CZ: Oddio, è come chiedermi di scegliere un solo invito romantico a cena con uno a caso tra Leonardo Di Caprio, George Clooney, Jude Law, Colin Farrell o Terrence Howard.…Di certo, se non fossi stata a Los Angeles per gara1 delle Finali del 2001 tra Sixers e Lakers, avrei scelto quegli immortali 53 minuti di basket rarefatto. La madre di tutti i Davide contro Golia sportivi, l’equivalente per Iverson, il mio giocatore preferito di allora, della camminata di Armstrong sulla luna; solo che ad Ive, quella sera, è toccato camminare su Tyronn Lue prima di poter piantare la propria bandierina in cima alla storia del gioco.
Quando sono triste, o mi guardo Frankenstein Junior o mi riguardo Gara1.
In due posti, però, di sicuro non c’ero; e se si esclude Woodstock ’69 e Wimbledon ‘89, non ce ne sono altri due in cui avrei (dovuto) e voluto esserci di più in vita mia: a Salt Lake City, per gara6 delle Finali del 1998, e sempre a Salt Lake City, l’anno precedente, per The Nausea Game, altrimenti nota come gara5 delle prime Finali tra Jazz e Bulls.
Tra le due sceglierei forse gara6 del ’98, perché si sapeva che si stava giocando l’addio di Jordan e quell’addio si respirava perfino dal mio televisore, figuriamoci in mezzo ad un’orda di mormoni ostili; perché gli ultimi 4 punti di Sua Maestà, dal vivo, e a dir la verità tutta la seconda metà di gara, prima o poi ci riveleranno essere stato il vero Truman Show, 9 giorni dopo quello uscito in pellicola; perché avrei potuto testimoniare come il Più Grande di Sempre, davanti agli occhi del mondo e con Pippen con la schiena in fiamme, compie l’ultimo sforzo per raggiungere la vetta del proprio gioco e appendere al chiodo delle Nike che nessuno possa mai più calzare.
Poi, se mi dovesse capitare gara5 delle Finali del ’97, non mi lamento, sia chiaro…E’ lì che si è distillata la purezza di Michael Jordan, il Sacro Graal del Ventitré, quello che le stelle che l’hanno succeduto ancora vanno cercando tra i palazzetti NBA: i tiri impossibili, le schiacciate casca-mandibola, l’hang-time su ogni jumper glaciale, le penetrazioni acrobatiche, la perfetta sovrapposizione tra desiderio e volontà nei momenti cruciali di gara, il tiro libero chiave, il rimbalzo chiave e naturalmente la tripla chiave, i sensi che hanno guidato il dramma o viceversa. Non sono più stata la stessa dopo quella gara. E non è un modo di dire.
Doverosa postilla: mi hai chiesto di un momento NBA su tutti, quindi l’ABA non vale, ma dai racconti che mi hanno fatto i vari McCallum, Phil Taylor di Sports Illustrated e Michael Wilbon di ESPN, la cosa più bella da vedere live su un campo da basket è e rimarrà per sempre Julius Erving, a cavallo tra il 1971 e il 1976, quando a detta di molti addetti ai lavori “non c’era niente che Doctor J non fosse in grado di fare o inventare all’interno di un rettangolo di gioco, e niente che non facesse con assoluta grazia e contagioso divertimento”. Ecco, quel Dottore ventenne e psichedelico, con un afro di 20 centimetri, l’avrei voluto vedere anch’io, live, soprattutto dopo aver sgranato gli occhi davanti ai filmati incredibili della sua rivalità con Bird nei playoff NBA dei primi anni ’80.
A Los Angeles, dopo la famosa gara1 delle Finali NBA del 2001, ho chiacchierato per una notte intera con una delle penne più fulgide del giornalismo sportivo americano, Phil Taylor. Gli ho chiesto se avesse mai visto niente di più esaltante su un campo da basket e Mr. Taylor non ha esitato neppure un secondo, sebbene rintoccassero le 5 di mattina e nella hall del Wilshire Grand ci fossero 12 gradi di aria condizionata.
“Gara6 delle Finali ABA del ’76. I New York Nets di Julius Erving, allenati da Kevin Loughery, contro la corazzata Nuggets di David Thompson, Dan Issel e Bobby Jones, allenati da Larry Brown e Doug Moe. Doctor J aveva solo 26 anni allora e uno svantaggio di 22 punti alla fine del 3° quarto. Quella è stata l’ultima partita di basket ABA disputata. Vincendo quella gara e il titolo, The Doc ha obbligato l’NBA a fondere le due leghe pur di annoverare Julius Erving tra le proprie stelle. Quella sera va considerata come la genesi del basket NBA moderno.”.
Amen.
Qual è il giocatore più divertente che abbia mai intervistato?
CZ: L’artista precedentemente conosciuto come Ron Artest a mani basse. Poi Steve Nash, Cliff Robinson (sì, il mitico Uncle Cliffy) e Mikael Pietrus a ruota. Devo ammettere che anche Gilbertology da rookie era materiale da Saturday Night Live, ma si è perso per strada. Honourable Mention a Gary Payton, che sa essere serissimo ma anche spassosissimo, a Stephen Jackson, quando non gli girano troppo, e a Shawn Marion, il più esilarante delle scorse Finali.
P.S. Mi riserbo la possibilità di ritrattare la mia top3 dopo aver posizionato un microfono davanti a quel califfo di Joakim Noah.
Di conseguenza, il più noioso?
CZ: Probabilmente se la giocano ai punti Tim Duncan e Andre Iguodala, con una terza piazza ad Anderson Varejao.
C’è in palio la tua vita. A quale singolo movimento di un giocatore affideresti il pallone che deciderebbe il tuo destino e perchè? Anche qui hai a disposizione tutti i giocatori della storia per scegliere.
CZ: Beh, per risponderti precisamente dovrei prima sapere due cose: 1) Parliamo di una situazione uno-contro-uno o di una situazione 5-contro-5? 2) Il giocatore da me scelto saprebbe di avere tra le mani tale responsabilità o ne sarebbe ignaro?
Perché se si trattasse di una situazione 5-contro-5, con il designato ignaro di avere la mia vita tra le mani, opterei o per Wilt (Chamberlain), annata – come per i migliori vini – 72/73, o per Kareem (Abdul-Jabbar) dal 1970 al 1980: in entrambi i casi, palla dentro a uno dei due e che se la vedano contro chiunque, contando che il Primo a cavallo tra il ‘72 e il ’73 ha convertito quasi il 73% dei tiri provati, mentre per l’intera decade dei pantaloni a zampa il gancio-cielo di Kareem è stato virtualmente immarcabile.
Se invece stiamo parlando del più classico degli uno-contro-uno, per la giocata del do-or-die, sarebbe difficile non optare per il fadeway-jumper di Jordan o per il tiro in sospensione di Larry Bird (possibilmente in stato di forma da playoffs ‘81 – infallibile dal campo per 40 giorni filati). Non mi vengono in mente due mosse e due giocatori più clutch nell’intera storia del gioco, soprattutto con la posta in palio più alta. Il dream-shake di Olajuwon e lo step-back jumper dell’ultimo Nowitzki sarebbero entrambe egregie alternative, ma pur sempre due o tre tacche sotto ai Miei Due Prescelti quanto a clutch-itudine.
Detto questo, essendo io la più romantica sportiva del globo, sussurrerei all’Iverson con fascetta e maglia rigorosamente Sixers che la mia vita dipende dal suo crossover e poi me lo godrei per un’ultima volta mentre sbilancia il difensore con l’esitazione a destra, si riporta il pallone in mezzo alle gambe, finta di tirare sbilanciandosi indietro e si brucia l’avversario in penetrazione. Non credo esista un modo migliore di morire.
Il basket è sentimento?
CZ: Oddio, di certo è molto più bello di alcuni fidanzati che ho avuto. Per quanto mi riguarda il basket è lo sport perfetto: perché si può giocare da soli o in gruppo, perché può essere una faccenda dannatamente personale, o viceversa parecchio sociale, perché non esiste modo più stiloso, creativo, spettacolare e allo stesso tempo cazzuto di fondere un gioco di squadra con le speranze riposte nel talento individuale. Stefan Zweig, uno degli scrittori più famosi al mondo a cavallo tra il proibizionismo e il jazz degli anni ’30, ha scritto: “In fatto di sentimento, l’intensità è tutto, il contenuto è nulla”. Nel basket, a mio parere, vale la stessa cosa.
Simone Mazzola