Si chiude in un bagno di champagne e con la strepitosa uscita di Ron Artest in conferenza stampa la stagione NBA per i Los Angeles Lakers, vittoriosi per il secondo anno consecutivo alle Finals, in una seria lunghissima e durissima sotto ogni aspetto, ma che vede nella (meritata) vittoria il gusto e la soddisfazione di aver sfatato il mito di gara-7 contro i Celtics, da sempre trionfanti all’ultimo atto di una finale contro i losangeleni. La sfida è stata intensa, complicato fino all’ultimo scommettere sui vincitori: da una parte Boston, probabilmente all’ultima spiaggia della breve era “Big Three”, dall’altra dei Lakers certo forti, ma allo stesso tempo inconcludenti e capaci di tornare in California con le spalle al muro, nonostante il fattore campo iniziale. Analizzare queste sette partite non è affatto semplice, perchè LA ha giocato due pallacanestro sostanzialmente differenti a seconda che si scendesse in campo in Massachusetts o in California oltre al fatto che gli aggiustamenti fatti lungo il percorso dai due coach sono stati molteplici e ricordando poi quanto la psicologia conti in una delle più classiche battaglie di questa lega: proviamo comunque a riavvolgere il nastro e a mente fredda ripercorriamo le Finals vissute dalle due sponde rivali.
TATTICA. Dal punto di vista tattico le vere magate sono arrivate, come d’altronde ci si poteva aspettare, da Thibodeau che grazie ad una difesa degna dei migliori catenacci del calcio europeo ha spesso lasciato Bryant isolato in un continuo 1vs5, particolare evidenziabile soprattutto in gara-5 quando Kobe, seppur in maniera impeccabile, ha dovuto farsi carico dell’intera fase offensiva dei suoi. Togliendo gara-2, l’unica in cui Ray Allen è riuscito a trovare il fondo del cestello con continuità, le due sconfitte subite al Garden sono state frutto di un misto tra la brutta gestione della panca di Jackson (troppo Artest e troppo poco Vujacic) e un gruppo che di fronte alla banda C’s carica a mille ha lasciato le sorti al #24, strepitoso in ogni singolo match, ma dimenticato in mezzo a raddoppi (se non triplicamenti) fin da game-2, con una serie di performance jordaniane così sprecate nel nulla dai restanti 11 compagni. Gasol e Bynum sono stati ingabbiati molto spesso, limitati nei movimenti e nelle conclusioni nel pitturato: l’assenza di Perkins, inutile negarlo, è stato così uno dei punti cruciali, perchè in gara-7 Pau ha raccolto 18 rimbalzi sommati a 19 punti, dopo che le due L a Boston lo avevano visto indossare di nuovo la scomoda veste di Gasoft, continuamente umiliato da un KG che se non altro gli ha insegnato che spesso sarebbe meglio tacere nelle vigilie di sfide così importanti. Eppure proprio della difesa avversaria i lacustri hanno fatto tesoro, costringendo la squadra di Rivers a due ultime prestazioni offensive davvero scarse (mai sopra gli 80), con la panchina che persa l’energia del fattore campo si è rilevata un vero flop, con un Allen che involutosi nel corso dei giorni (seppur fenomenale nelle retrovie) ha reso meno complesso il lavoro difensivo di Fisher oltre a privare di una sicurezza offensiva i celtici. Infine un impietoso confronto a rimbalzo dove non è bastata neppure la grinta di Wallace per fermare i tap-in di Artest e Gasol, grazie anche al poco aiuto dei restanti giocatori sempre troppo lontani dai due tabelloni. Los Angeles questa serie l’ha vinta sotto canestro, a rimbalzo, Boston la stava per portare a casa con una difesa meravigliosa, ma l’ha buttata via con decisioni poco lucide in attacco nei momenti decisivi, per colpa di un Pierce intrappolato da Artest e per i troppi errori di RayAllen. In definitiva, dando uno sguardo generale alle due panchine, cosa hanno sbagliato e cosa azzeccato i due coach dalle loro poltroncine?
Togliendo gara-1, perchè è un’impresa poter vincere all’esordio fuori casa, Rivers ha sbagliato ben poco: Boston ha giocato fino alla morte ognuna delle sette partite giungendo a pochissimo dal colpaccio finale; grinta e cattiveria agonistica non sono mai mancate, ma LA tra le mura amiche non poteva proprio non vincere. Difficile prevedere se con Kendrick Perkins (out per problemi al ginocchio) l’inerzia delle ultime due sfide sarebbe cambiata, ma guardandosi indietro e ripensando alle premesse fatte fin da Ottobre, il lavoro di Doc è stato a dir poco eccezionale, arrivando ad insegnare basket ad un maestro come coach Zen. L’estate sarà lunga e probabilmente si è giunti alla fine di un triennio: dopo 22 anni comunque, il Celtics Pride è tornato e possiamo star certi che Ainge riuscirà a far tornare competitiva la squadra ben presto.
Jackson invece ha rischiato di poter rimpiangere una tra gara 4 o 5, che data la W in game-3 doveva essere portata a casa, ma lasciate invece ai C’s a cui così è stato concesso il doppio match point. Coraggioso nel rimettere in campo Vujacic in modo da allargare il campo anche dopo le orrende uscite con i Suns, permangono, però, i dubbi su Bynum perchè il giovane centro gialloviola ha sì tenuto il campo ma senza mai riuscire ad incidere in almeno uno dei sette match. Ad ogni modo l’11esimo anello non può che dargli ragione in tutto, assieme al sentore che nonostante tutto riesca sempre ad accendere i suoi ragazzi nei giusti momenti, superando le tante fatiche che comporta il repeat durante la stagione. Ora manca solo il rinnovo, perchè a LA si pensa già al secondo three-peat di questo millennio.
MVP I numeri sembrano parlare chiaro (29 punti + 8 rimbalzi + 4 assists) e sette nottate in bianco non possono che confermare la ovvia scelta di Stern: di questo fuoriclasse sfugge ancora il come riesca a segnare periodicamente con tre uomini addosso e relative mani in faccia, il come possa giocare con una simile tranquillità e serenità per quanto, e questo va sempre sottolineato, non sia neanche vicino al proprio 100% di forma fisica, tra dita e acciacchi di Regular season. Votarlo come miglior giocatore non è altro che una scelta forzata, perchè forse solo sette gare a ritmi di 20+20 di un Gasol avrebbero potuto mettere in discussione l’ambito premio: lui è MVP perchè è semplicemente inconcepibile giocare a questi livelli per oltre due mesi (30 di media in questi Playoffs), è MVP perchè nell’annata in cui tutti aspettavano James lui ha trascinato i suoi fino in fondo, lui ha alzato il titolo e lui soltanto completa la sua prima mano di anelli dorati. Vederlo giocare in quel modo non può che incantare qualsiasi spettatore, perchè se il ragazzo è in missione ti puoi chiamare come vuoi, ma fermarlo diventa qualcosa in più che un’impresa: Jazz e Suns l’hanno capito strada facendo, ora è toccato ai Celtics, i migliori nell’arginarlo e incanalarlo su ben definiti percorsi, ma i migliori pure nel dargli la giusta carica e fare della storica rivalità il giusto palcoscenico per l’ennesimo capolavoro di una favolosa carriera. Lo Staples chiuderà sì battenti, ma sul trono rimane ancora una volta lui, magari senza triple doppie, magari senza talco tra le dita, magari senza pagliacciate tra compagni, magari soltanto lui, lui e il suo talento ineguagliabile. Lui, semplicemente Kobe Bryant!
Per concludere insomma è importante riconoscere i meriti a Boston, squadra unita e a larghi tratti più brillante dei lacustri, che alla fine comunque ha saputo trarre esaltazione ed energie proprio dalla bravura dei biancoverdi: vincono i Lakers perchè alla fine è giusto così, ma non perdono certo i Celtics, che mai come quest’anno possono uscire dalla bolgia gialloviola a testa alta, seppur tra le lacrime di chi è arrivato a 90 secondi da uno dei più pazzi esiti delle Finals. L’anello lo vince così Artest, per simpatia e dedizione, lo vince Fisher dall’alto dei suoi 36 anni, lo vince Gasol, delicato, ma concreto, lo vince Brown, lui che solo nell’aria sembra a suo agio, lo vince Lamar, logorroico ma fondamentale, lo vincono Mbenga, Morrison, Walton, al secondo anello da comprimari e panchinari e lo vince West, suo il merito di far incantare ogni notte milioni di fans in tutto il mondo grazie ad una scommessa, tale Kobe Bryant, azzeccata a pieno in quel Draft 1996, lo vincono i Lakers insomma e ora che il Repeat è cosa fatta…avanti il prossimo (anello s’intende). Buona estate!
“Questo non è un gioco, è uno sport nobile, che ha un solo enorme difetto: alla fine vince solo uno. Il più forte.”
Central stats: Kobe Bryant 28.6 points, Pau gasol 11.1 rebounds, Rajon Rondo 7.6 assists
Michele Di Terlizzi