It’s that time again! Fuori tempo massimo (a quest’ora, in qualsiasi altra stagione, saremmo in piena preseason), fuori da ogni schema (senza pubblico, se non virtuale, senza fattore campo, senza Warriors e senza Spurs!), fuori dal mondo (l’isolamento nella bolla di Orlando), ma i playoff NBA sono entrati nel vivo, in tutto il loro splendore. Allora torna #insideout e lo fa, com’è nella sua ragion d’essere, uscendo dagli standard della cronaca spicciola (tanto, ormai, ne sapete già più di noi) per offrirvi qualche spunto di riflessione e qualche lezione buona per le prossime occasioni.
Gli infortuni pesano, eccome! Nella Eastern Conference è stata una ecatombe, e per favore non venitemi a dire che i Raptors avrebbero facilmente confezionato lo stesso cappotto ai Nets se questi avessero avuto a disposizione Irving, Dinwiddie, Jordan, Beasley, Crawford, Claxton, Chandler e Prince (non voglio neppure considerare Durant)! Non raccontatemi che i Celtics avrebbero avuto vita tanto facile con Simmons in servizio permanente ed effettivo, gli Heat contro il vero Oladipo e Sabonis, i Bucks se i Magic avessero avuto Gordon tirato a lucido e non avessero perso per strada Isaac.
Un po’ meno drammatico il quadro a Ovest, eppure ritengo emblematico il caso dei Blazers, insieme a Nets e Warriors i più sfortunati della stagione: dopo una regular season portata avanti senza frontcourt titolare, rientrati Nurkic e Collins, quest’ultimo si ferma di nuovo, McCollum gioca sul dolore da frattura vertebrale, arrivano ugualmente a strappare eroicamente il pass per la post-season con un quintetto che farebbe paura perfino a King James e finisce fuori, alla fine, pure Lillard…E vabbè, allora ditelo!
Non mi azzardo a credere che qualcuna di queste serie avrebbe potuto cambiare padrone con tutte le squadre al completo: sono, anzi, abbastanza convinto che il tabellone delle semifinali di Conference abbia rispecchiato piuttosto fedelmente le gerarchie dei valori espressi, complessivamente, in questa tribolata stagione, ma dover prolungare le serie dei quarti avrebbe forse potuto incidere sullo stato di forma di qualche squadra. Alla fine dei giochi, aver avuto bisogno di meno partite per arrivare alle Finals, con l’equilibrio che regna quest’anno (ci torneremo), potrebbe risultare un fattore a vantaggio di Heat e Lakers. Forse non il principale, ma certo un fattore.
Bentornato, midrange! Lo predichiamo da tempo: il basket del futuro, quello più efficiente e, oggettivamente, anche più bello da vedere, perché meno monocorde e prevedibile, sarà quello in cui tutti i giocatori sono in grado di svolgere più ruoli e tutte le mattonelle del campo sono potenzialmente buone per una conclusione ad alta probabilità di riuscita. Dove sta scritto che un tiro dalla media non sia un buon tiro? Il tiro più efficace è quello più smarcato, non necessariamente il catch and shoot o il layup. E il midrange è tornato a fare capolino a Orlando: non in modo prepotente, né invadente, nemmeno ad opera di tutti. Ma, se OKC ha fatto faville col jumper di Paul (e fin qui, nessuna sorpresa), va anche detto che i Nets, ad esempio, una delle franchigie meno dedite ad esplorare la “terra di mezzo”, hanno invece cambiato radicalmente registro e l’effetto sui risultati, ben oltre quelli attesi, è stato più che buono. Se i Clippers sono tra le squadre più equilibrate e votate al tiro dalla media, che dire, allora, di Kemba e soci? E di Butler? Cosa, del jumper a la Bryant con cui Lowry ha portato i campioni uscenti a gara 7? E McCollum? E Melo, redivivo per la gioia di chiunque ami per davvero e senza pregiudizi la palla a spicchi? E di Tucker, che rinuncia alla sua comfort zone nell’angolo per piazzare un floater dalla media appoggiato al tabellone, decisivo in gara 7 contro i Thunder?
Non porto cifre: parlo volutamente al cuore degli appassionati che stanno seguendo le partite. Lascio ai fanatici delle statistiche l’onere di critiche e smentite: so bene anche da me che il numero delle conclusioni prese dalla media è ancora irrisorio rispetto a quelle entro i 5 piedi dal canestro o oltre i 24 (non le cito, le stats, ma le leggo anch’io). Però è in crescita e, se le partite le guardiamo, scopriamo che molti schemi sono costruiti per liberare un buon tiro dalla terra di mezzo e, soprattutto, che molti giocatori tra i più smart iniziano a compiere, senza imbarazzo, la scelta blasfema di rinunciare alla tripla per cercare il vetusto arresto e tiro dai 5 metri. Eureka!
Bentornato, equilibrio! Stiamo per completare il tabellone delle finali di Conference e, alla luce di quanto visto in campo, lo sportivo medio può legittimamente indicare una qualsiasi delle contender ancora in vita come propria favorita per il titolo senza incorrere in accuse di eresia. Di più: anche nelle semifinali non c’era alcuna superfavorita alla vittoria: certo, arduo preferire i rivoluzionari barbaRockets (perché tatticamente autolimitantisi, ma neppure era preventivabile che deragliassero in quel modo!) ai Lakers di James e Davis, o mettere i Nuggets di Joker davanti ai Clippers, ma alzi la mano chi avrebbe previsto passeggiate per le losangeline! La redistribuzione delle superstar avvenuta l’estate scorsa, sancendo la fine dell’epopea dei superteam, ha avuto un effetto benefico tanto sulla competizione, quanto sulla qualità diffusa del gioco di squadra (ci torneremo), tanto che, ad oggi, ancora non abbiamo una vincitrice in pectore, mentre abbiamo, al di là della contingenza dei risultati, almeno (e sottolineo, almeno) sei o sette squadre con i loro problemi e difetti, ma facilmente indicabili come mediamente superiori alle altre. E non è scritto da nessuna parte che a Natale saranno le stesse, dopo mercato e rientro degli infortunati (leggasi Nets e Warriors). Nel momento in cui scrivo, la serie dei Clippers aspetta ancora il suo verdetto finale: la quarta di questi playoff trascinatasi fino a gara 7, la seconda tra le semifinali di Conference… Equilibrio all’ennesima potenza!
Vittoria contesa, vittoria alla difesa (quasi sempre…)! Non è certo una sorpresa, anzi, è ormai una massima: gli attacchi fanno spettacolo e le difese vincono i titoli. Mi pareva comunque opportuno sottolinearne l’evidenza statistica: delle otto semifinaliste, ben sette figurano nelle prime otto posizioni per defensive rating ai playoff. Fa eccezione la sola Denver, che ha sopperito ai limiti strutturali di un sistema difensivo teoricamente non male, come quello di Malone, con un fenomenale duo offensivo che sta facendo lacrimare sangue a quella che, ai più (me compreso), sembrava la squadra più attrezzata per infilarsi l’anello.
Vedi com’è il basket? Dopo sei partite, ancora mi sto chiedendo cosa induca la miglior difesa uno contro uno, off the ball e nelle rotazioni (opinione mia) a sparire dal parquet nel secondo tempo. Quel che è certo (a proposito di giocatori bravi a fare quasi tutto) è che Jokic rappresenta il vero bug di sistema di questi playoff: bug difensivo sui pick and roll, ma soprattutto bug offensivo capace di far saltare qualsiasi piano avversario, semplicemente perché è la mente e le mani di una point guard nel corpo e nella lentezza di un centro old style. Chiedere al neoeletto sesto uomo dell’anno, che si sta ancora chiedendo dove sia il pallone… Fatto sta che davvero nulla è scontato, c’è sempre qualcosa che sfugge al controllo razionale, alle previsioni, al mare placido dei risultati scontati. Qualcosa che ti fa maledire il dover rimettere mano ogni giorno a quanto avevi già scritto la sera prima, ma che ti fa amare il Gioco e non stancare mai. Tu chiamale, se vuoi, emozioni…
Chi sbaglia paga (anche per gli altri…)! Moria di coach mentre la stagione non è ancora conclusa: con motivazioni e modalità differenti, sono già saltati McMillan, Brown, Vaughn, Donovan, D’Antoni e anche Budenholzer non se la passa troppo bene (anche se sembra aver avuto rassicurazioni dalla franchigia). C’è sicuramente chi tra loro ha deluso, c’è chi ha stressato la propria filosofia pagandone lo scotto, ma c’è anche e soprattutto chi paga scelte sbagliate in origine o incompatibilità con le strategie societarie. E c’è, soprattutto, chi paga colpe non sue, ma questo è un altro discorso, vecchio quanto lo sport professionistico. Ci sono anche giocatori finiti sul banco degli imputati: penso a Siakam e perfino Antetokounmpo (ma scherziamo?). Ci sono sistemi estremi (Houston) che sono stati portati avanti con orgoglio e coerenza fino in fondo e che sono collassati al loro interno, prima ancora di cedere il passo al Prescelto e alla voglia di rivalsa dei Lakers. Ci sono processi durati anni e osannati come modelli da imitare e che, invece, sono falliti miseramente senza mai andare oltre le semifinali di Conference (Phila di Sam Hinkie e Nets di Billy King, strategie opposte, medesimo risultato: sarà ora di rileggere la storia recente con più equilibrio?). Sta di fatto che, se cinque o sei contender cambiano manico e registro, mi pare evidente che ci avviamo verso l’ennesima svolta radicale nella storia recente del basket americano.
New era is coming? È possibile che ci avviamo verso l’alba di un nuovo modo di guardare al basket americano e la cosa non ci dispiace affatto. Le superstar cercano molto meno il grande mercato, sono più attente alla qualità dello staff e alla serenità ambientale (leggasi le interviste di Durant), alla ricerca delle motivazioni e del posto giusto in cui affermarsi e provare a vincere. Dai big three riservati a una o, al massimo, due franchigie si è passati, quest’anno, al più democratico big two; dai superteam a la Miami, Cavs o Warriors della decade precedente, si è passati alla costruzione di squadre dal talento più diffuso: meno individualismo, più gioco di squadra e possibilità di emergere anche per role player che possono diventare eroi per una notte o risultare indispensabili alle rispettive squadre. Smart, Caruso, Herro (vabbè, lui ce l’ha quasi scritto nel nome), ma anche l’ottimo Zubac, Dort, Powell, Plumlee… E come dimenticare l’eroica gara 4 dei Bucks operai e orfani del greco volante? No, non sono stati solo i playoff di LeBron, Leonard, Tatum, Butler, Jokic o Davis, men che meno di Antetokounmpo (dai, fenomeno, rimettiti presto!), Harden o Embiid. Anzi: le serie di semifinale sono state dei veri trip tattici in cui abbiamo visto di tutto: le difese arcigne, i raddoppi, le zone miste, le box-and-one, fiumi di smallball, alto-basso old style, pick & pop scivolati (marchio di fabbrica degli Heat: alzi la mano chi non sta già pregustando il confronto con il mortifero P&R di Walker!). Perché no, il venir meno, sorprendentemente, delle solite piogge di triple e il prendere coscienza che tirare da tre non è sempre una soluzione buona, né facile, né piacevole, men che meno efficace.
Abbiamo una finale a Est (la seconda volta tra Heat e Celtics, dopo il 2012) che, più che per la sfida tra Tatum e Butler, intriga un casino per quella tra Spoelstra e Stevens: singoli al servizio di sistemi, gioco di squadra prima che hero ball accompagnati dai soliti, osceni gemiti di piacere per la giocata della superstar.
Avremo una finale comunque inedita a Ovest, forse addirittura una stracittadina, in ogni caso un faccia a faccia tra diversissime filosofie di gioco, tra sistemi difensivi niente male: a me hanno colpito molto, ad esempio, la difesa in transizione dei Lakers e le rotazioni sotto canestro dei Clippers (quando ne hanno voglia). A voi no? Beh, vuol dire che guardiamo il basket con occhi un po’ differenti.
Ma forse il punto sta proprio qui: io vedo, forse in modo un po’ visionario, forse fuorviato anche un po’ dal fatto di averlo a più riprese predetto, il ritorno del gioco di squadra, degli schemi piuttosto che degli iso, del tiro pulito a scapito del tiro dall’arco, dei fuoriclasse che aggiungono valore alla squadra, invece di sostituirsi ad essa!
Nella prossima edizione faremo, finalmente, l’analisi delle finali e poche chiacchiere, promesso, tuttavia un messaggio vorrei lasciarlo: cominciamo anche noi commentatori a mettere sotto i riflettori la qualità del gioco di squadra e proviamo, per un attimo (e soprattutto quando non se ne sente il bisogno) a magnificare un po’ meno il layup di LeBron o il buzzer di Butler. Meno fanboys e più collettivo, meno stats e più schemi, meno sensazionalismi e più tecnica. Magari anche da parte di chi, come noi, è ai margini della scena ma ha l’ambizione di raccontare fatti ed elaborare opinioni: potrebbe essere l’inizio della buona rivoluzione e dovrebbe partire anche da noi…