Sarebbe stato bello scrivere un pezzo sulla sconfitta contro Treviso e chiedersi come sia stato possibile, in una partita che metteva in palio una grossissima percentuale di salvezza, aver avuto un approccio talmente molle da permettere agli ospiti di segnare la bellezza di 29 punti in dieci minuti, spendendo solo 3 falli, di cui l’ultimo sulla sirena di fine quarto. Sarebbe stato bello polemizzare con chi, nelle settimane scorse, ha quasi bacchettato una tifoseria improvvisamente fredda e distaccata, quando poi la squadra in campo ha tradito le aspettative di un pubblico finalmente numeroso e caldissimo con una prestazione deludente prima di tutto sul piano della tenuta mentale. Sarebbe stato bello anche rendere omaggio alle ragazze della C.F. Pistoiese 2016, gradite ospiti del Pistoia basket per un applauso ad un movimento in ascesa, che merita rispetto.
Quando però in sala stampa, in attesa delle dichiarazioni di coach Carrea, è giunta la notizia della scomparsa di Bryant, del nostro Kobe Bryant, tutta la vicenda del basket giocato ha perso ogni importanza. Ho dovuto attendere qualche ora per mettere ordine in una marea di pensieri che mi frullavano in testa.
Tante le immagini di Bryant. Kobe giocatore alle prima armi, al ritrovo di inizio stagione ed alla festa di fine anno perché, avendo un anno e mezzo più di me, giocava la stagione con ragazzi più grandi. Mentre tutti noi bambini provavamo a fatica a fare un palleggio sotto le gambe, alzando il piede da terra, lui prendeva la palla e corricchiava per il campo, cambiando mano ad ogni palleggio facendosi passare la palla sotto le gambe. Dieci – undici anni di età, come fosse la cosa più naturale del mondo. Kobe in partita, un canestro via l’altro come fosse la cosa più normale del mondo. Kobe a bordo campo al PalaCarrara per la partita del babbo, il grande Joe, prima dell’inizio del riscaldamento, palla in mano con canestro ad altezza regolare, se si avvicinava un giocatore per fare due palleggi col bimbo avrebbe rischiato la figuraccia.
Kobe compagno di scuola alle Mantellate. All’uscita di fine mattinata, avevo preso l’abitudine di chiedere un autografo al grande Joe, tutti i giorni un rito pagano di fronte al dio pistoiese del basket dell’epoca. Joe che fingeva di stupirsi “Luca, ancora un autografo?” e poi ridendo mi faceva l’ennesima dedica. Tutti i giorni, in tutte le pagine del diario. Lì era l’unica occasione in cui non amavo Kobe, visibilmente insofferente per queste continue richieste, che certamente dovevano sembrargli assurde oltre che pedanti. Qualche anno dopo mi sono chiesto come mai non mi sia mai venuta l’intuizione di farmene fare uno da lui, che certamente avrebbe preso la cosa molto seriamente e non si sarebbe tirato indietro.
Kobe a 17 anni che finisce con la maglia dei Lakers. Per me, che ero innamorato del basket con lo showtime gialloviola di Magic Johnson, un’emozione incredibile. La notte in bianco per il primo anello, gelosamente registrato su un VHS che conservo ancora, ormai inservibile. Poi la storia che tutti conoscono, altri due titoli con Shaq, quindi il quarto ed il quinto anello per dimostrare a se stesso ed al mondo che poteva dominare anche senza O’Neal e che era pronto per diventare leggenda. Per noi che abbiamo visto giocare Jordan forse sempre un piccolo gradino sotto sua maestà, ma certamente un fuoriclasse assoluto che ha fatto la storia della pallacanestro mondiale.
Tutti abbiamo conosciuto la Mamba menthlity, una filosofia di vita che è stata fonte d’ispirazione per milioni di ragazzini in tutto il mondo ed anche per tutti noi che ragazzini non lo siamo più da un pezzo, per tutte le nostre piccole sfide quotidiane che la vita ci ha messo davanti. Un’etica del lavoro mai vista prima, la consapevolezza che, per raggiungere la perfezione, quel talento naturale era stato affinato da migliaia di ore ed ore di allenamento durissimo. Una grande lezione di vita, oltre che un manifesto di amore per questo sport.
Ricordo i 60 punti nella serata in cui calava il sipario, quel “Mamba out” con cui si è congedato dai suoi tifosi sparsi in tutto il mondo. Ricordo anche l’orgoglio con cui, qualche anno fa, il nostro vecchio allenatore – Federico Zingoni – mi ha regalato una sua biografia in cui aveva dichiarato di aver imparato i fondamentali del gioco in Italia, soprattutto a Pistoia e Reggio Emilia.
Piace immaginarlo stasera accolto in Paradiso da Robertone Maltinti, che da quando Kobe si era ritirato fantasticava spesso un modo o l’altro per farlo tornare a Pistoia. Piace immaginarli lassù, a lanciare uno sguardo affettuoso sul PalaCarrara.
Luca Cipriani