“L’attesa del piacere è essa stessa il piacere”
Così recita un vecchio adagio applicabile alla vita come allo sport.
Spesso l’adolescenza dura anni per poi, repentinamente, catapultarti nell’età adulta portando a compimento la maturazione in un istante: un trauma, un’emozione, un cambiamento di vita radicale, una tempesta di ormoni.
È esattamente quello che è capitato ai Nets. Squadra giovane, in pieno rebuilding, senza speranze, senza appeal, senza scelte, con un anno di successi è stata proiettata sotto i riflettori e ha dovuto crescere in fretta, essere e mostrarsi grande, assumersi le proprie responsabilità.
Il mese di giungo dei Nets è stato, al tirar delle somme, una lunga, estenuante ma eccitante e piacevole attesa di eventi più grandi di loro, eventi materializzatisi (eccome!) proprio alla mezzanotte del 30 giugno, all’apertura ufficiale della free agency. Un’attesa lunga un mese denso di operazioni propedeutiche, una sorta di adolescenza ricca di movimenti atti a rendere la franchigia di nuovo grande. Poi, lo sviluppo, il corpo che cambia e diventa improvvisamente adulto, forte, ambizioso, cui ogni traguardo sembra schiudersi ed arridere.
O mio capitano… La velocità di crociera dell’Enterprise bianconera, tenuta finora, sotto la guida del capitano Kirk (Marks), orgogliosamente a regime di coppia massima, ha portato i Nets, dalle secche di tre anni or sono, all’interspazio della post-season. Il combinato disposto di questo risultato, già in sé straordinario, del recupero delle proprie scelte e del proprio futuro e della straordinaria offerta di fuoriclasse in questa free agency ha indotto il commander in chief ad ordinare l’attivazione della warp 5, trasportando, nel breve volgere di una notte, i Brooklyn Nets nella galassia fin qui inesplorata delle contender.
Niente più politica dei piccoli passi, niente più ricerca delle battute singole o doppie: Sean Marks è andato sul piatto fermamente convinto di battere il fuoricampo e mettere a segno il walk-off run, quello che ti fa vincere il platonico (ma nemmeno poi tanto) titolo di regina dell’estate (almeno nella Eastern).
Si è preparato lungamente, per pervenire a questo risultato. Non ha scoperto le sue carte neppure un po’, anzi… ha lasciato tifosi e analisti a brancolare nel dubbio amletico dell’essere o non essere (D’Angelo Russell o Kyrie Irving), lasciando che si dilaniassero, intorno a lui, tra le due fazioni. Ha tratto anche noi in inganno, noi che per anni ne abbiamo seguito le gesta ed enfatizzato imprevedibilità, eclettismo ed elasticità mentale non abbiamo resistito a schierarci, memori ancora di quanto Dlo abbia dato alla causa bianconera e quanto ne abbia ricevuto in cambio, in termini di maturità, tecnica, leadership. E, tuttavia, abbiamo saputo cogliere comunque il movente, l’unico che avrebbe legittimamente potuto orientare una scelta tanto strategica verso altri lidi: l’approdo, obbligatoriamente congiunto, del giocatore più efficiente al mondo, sia pure con un anno di riabilitazione alle viste.
Poi c’è tutto il resto del roster in via di composizione, ma sarà meglio procedere con ordine, ma solo per mero dovere di cronaca, perché la notizia, quella vera e che merita di essere annunciata da questo scranno al mondo del web, è che i Nets sono sulla bocca di mezza America (e non solo) perché, con Irving e Durant (col supporto non secondario di DeAndre Jordan), da franchigia più vituperata, come in un sogno di una notte di mezz’estate, si sono teletrasportati fino a raggiungere lo status di una delle più chiacchierate e temute dell’intero universo cestistico. E potremmo anche chiuderla qui…
Come da un errore può nascere un fiore… La mossa che ha girato le sorti future della franchigia, paradossalmente, è stata la pezza messa da Marks al suo unico errore da matita blu in queste stagioni di reggenza: la cessione di Crabbe e del suo oneroso contratto (con annessa pick e arrivo, in cambio, di Taurean Prince), operazione di cui avevamo tessuto le lodi e chiarito i dettagli nel numero precedente. Da qui, la possibilità di firmare ben due massimali. Il connubio apparentemente inscindibile tra Irving e Durant, oltre, forse, all’infortunio di quest’ultimo (e KD si è operato dallo stesso ortopedico di Levert, suo buon amico), ha fatto il resto, lasciando proprio i cugini di Manhattan con un palmo di naso ed un pugno di mosche e offrendo un nuovo regno e l’occasione di rivalsa proprio a colui che avrebbe dovuto garantire l’anello ai beffardi rivali di Boston, ladri del futuro bianconero fino a ieri. Orgasmo di massa al di qua del ponte…
All-in. Come detto, Marks ha letteralmente fatto la scarpetta in fondo al piatto, per raschiare fino all’ultimo cent di spazio salariale e arrivare dove si era prefissato, sornione. Dalla mancata qualifying offer a Hollis-Jefferson (era nell’aria, ma fa male lo stesso: addio, leone!); passando per la notte del Draft, letteralmente snobbata e con la rinuncia, dopo la chiamata numero 17 girata ad Atlanta nell’operazione-Crabbe, anche alla 27, ricevuta dai Nuggets e dirottata sulla sponda plebea di Los Angeles (plebea? Sarà il caso di cambiare ben presto certe abitudini lessicali…), giusto per risparmiare altri spiccioli di salary cap, accontentandosi della 31 (Claxton) e di una 56 (Hands) che poco incidono sul libro-paga bianconero (sui rookies torneremo, brevemente, a latere); per arrivare alle QO a quel D’Angelo Russell sul quale si sono, così, conservati i diritti per arrivare, infine alla sign & trade che ne grifferà l’addio, forse il più doloroso della giovane storia della franchigia.
Tutto, ma proprio tutto, in funzione del lancio dell’Enterprise a velocità ultraluminale e dell’approdo di due icone del basket moderno a Brooklyn! Già, tutto… compreso il sacrificio di una delle più belle poesie futuristiche che oltre trent’anni di passione per la palla a spicchi mi abbiano mai permesso di leggere nelle mie notti insonni.
Farewell, D’Angelo… Eh sì, perché, sia pur mitigato, forse nascosto, dall’entusiasmo straripante, dalla vertigine per un balzo siderale mai visto prima, il dolore per l’addio di un simile artista (sign & trade da 117 M per lui a Golden State, con ritorno della prima scelta 2020, sia pur protetta!), maestro delle curve sinuose e morbide, un Botticelli futurista e futuribile, resta sul palato come il retrogusto amarognolo di un raviolo al radicchio. Non è stato amore a prima vista, quello per Russell. La sua poesia va letta, riletta, interpretata, sentita, vissuta.
Aveva iniziato promuovendo la propria immagine nel migliore dei modi, con quel buzzer al Dyckman Park, in una notte d’estate simile a quella del 30 giugno, salutato dall’abbraccio del suo nuovo popolo. Ma poi, dopo l’inizio più che promettente, tra infortunio, minutaggi limitati e oggettive difficoltà di coesistenza, difesa e decision making, il pennello aveva un po’ tremato, nel corso della prima stagione, pur capace di zaffate degne di esposizione al MoMa. Poi, però, venne la breakout season, e non venne a caso. Venne, soprattutto, venne grazie a coach Kenny, che con lui ha saputo dosare carota e tanto, tanto bastone, spedendolo in panchina ad ogni distrazione, ad ogni forzatura, ad ogni deviazione dalla rotta. E lui, ragazzo estroso e intelligente come solo i predestinati sanno essere, ha fato tesoro ripagando in monete di platino. Non mi piacciono le cifre e lo sapete, benché siano tali da averlo spinto fin sul podio del MIPOY, ma nessuna statistica vi potrà mai raccontare il ball-handling ubriacante, il no-look per uno scarico e, sopra ogni altra cosa, la parabola di altezza irreale che nasce dal floater più morbido di sempre e muore in una retina con una frequenza pari solo alla dolcezza del gesto. Mai vista, lo giuro, tanta poesia applicata al gesto sportivo, se non nella vuota retorica di qualche commentatore. È per questo che va reso omaggio ad un giocatore che non sarà dimenticato facilmente, nonostante…
Final destination. …Nonostante ciò che è chiamato a non far rimpiangere la poesia meriti di riempire il cuore di #stillawake, perché è destinato a cambiare la storia della franchigia negli anni a venire. L’acceleratore dell’astronave capitanata da Sean Marks, e che la proietta in mondi mai visti a Brooklyn, porta nomi e cognomi e si tratta di all-star già con anelli alle mani, conquistati da protagonisti assoluti. Al secolo Kyrie Irving e Kevin Durant. Ovvero coloro i quali possono tranquillamente essere indicati come la miglior PG e il miglior giocatore al mondo (premetto subito che secondo me non è così, ma si tratta di opinioni ampiamente lette in giro nel corso degli ultimi due o tre anni). Fatto sta che stiamo parlando del play che ha permesso a LeBron di regalare il Larry O’Brien alla sua Cleveland e dell’ala che ha permesso ai Warriors di riprendersi da quello shock e diventare la squadra imbattibile che abbiamo imparato a conoscere.
Easy Money Sniper. Della imprescindibilità del (ex) #35 sul parquet abbiamo avuto, se ancora ce ne fosse ragione, la prova del nove più lampante proprio nel corso delle ultime Finals. Non so dire se KD sia definibile migliore di LeBron James. Io non lo penso e trovo francamente inutile un dibattito di questo genere. Quel che è certo è che KD ha permesso alla sua squadra di neutralizzarlo. È legittimo credere, e questo sì, io lo credo (e parlando di LBJ l’ho anche scritto), che the chosen one sia il più forte giocatore di questa generazione ma che KD sia il miglior giocatore “di squadra” in attività, il più efficace, se non il più forte.
Oltre all’amicizia, c’è un altro link molto forte ad accomunare queste due superstar: sono tra le più discusse al mondo. “Kyrie non è un leader e ha rovinato i sogni dei Celtics con la sua presunzione e i suoi personalismi”. “Kevin ha lasciato un progetto potenzialmente vincente per unirsi ad una squadra già fortissima, solo per essere sicuro di vincere. Non ha gli attributi e gli piace vincere facile. Si è perfino decurtato lo stipendio per andare alla corte di Steph (come fosse una colpa…)”. A questi potenziali “contro” va aggiunto il grosso punto interrogativo sulle condizioni fisiche di Durant: tornerà in tempo almeno per i prossimi playoff? Tornerà sugli stessi livelli di sempre? Come e quanto sarebbero cambiate le sue scelte e, a cascata, forse l’intero domino della free agency più folle e rivoluzionaria della storia, se non avesse giocato quella gara-5 maledetta, o addirittura se il suo polpaccio fosse stato in salute, se non si fosse strappato a Houston? Non lo sapremo mai e, in fondo, non ha più alcuna importanza, visto che la storia non si fa con i se o con i ma: sarebbe certo un ottimo spunto per un romanzo sportivo distopico, nulla più. Ciò che resta e che davvero interessa, per il futuro dei Nets nell’universo delle contender, che, poi, è l’obiettivo strategico numero uno (insieme con l’estensione contrattuale per Levert), è solo il desiderio di veder tornare Durant in campo non il prima possibile, ma al più alto livello fisico possibile. Tutto il resto è noia, oppure, scegliete voi, mera speculazione.
Se c’è, forse, in giro altri tre o quattro campioni dal blasone tale da poter negoziare un massimale con un tendine d’Achille appena ricucito, non credo ve ne siano altri in circolazione capaci di rinunciare non solo a quello super-super (si parla di 221 milioni di dollari) cui avrebbe avuto diritto rimando nella Baia, ma anche a qualche milioncino di quello sottoscrivibile a Brooklyn, pur di permettere al progetto di espandersi ulteriormente dove occorreva: senza la sua rinuncia e quella di Irving (che firma un quadriennale da 141 M, per intenderci identico a quello di un Kemba che prende il suo posto a Boston…), non ci sarebbe stato DeAndre Jordan e difficilmente si sarebbe potuto sopperire alla partenza di un giocatore prezioso come l’oro, come Ed Davis, ed alla paurosa mancanza di chili dei pochi lunghi a disposizione. DeAndre non sarà quello devastante visto a Los Angeles, ma è una garanzia fisica, un assegno circolare in cassaforte. Si può parlare di “big three” anche a Brooklyn? Con tutte le riserve legate al ritorno di KD, decisamente sì. E basterebbe questo per fare di Marks il GM del decennio, anche solo pensando al ritorno di immagine per una franchigia alla quale, solo tre estati fa, lo stesso Durant, free agent, neppure aveva risposto al telefono.
Uncle Drew. Non ci siamo dimenticati di lui, anzi: abbiamo riservato a Kyrie Irving il nucleo del nostro ragionamento. Perché è proprio la superstar che ha trascorso l’infanzia a un tiro di schioppo dal Barclays, nel New Jersey, la chiave di volta del mercato e del futuro dei Nets. Lui, di casa o quasi a Brooklyn, lui, tifoso dei Nets da ragazzino, lui, desideroso di riscatto dopo il mezzo fallimento del progetto-Celtics e le critiche per non aver inciso nei playoff appena conclusi; sì, proprio lui, che ha fortemente voluto Brooklyn come sua futura patria, ha convinto anche Kevin Durant ad accantonare altre possibili destinazioni per costruire i successi di domani in canotta bianconera. Il video girato sul ponte è una dichiarazione d’amore ed è, ormai, virale; “era scritto nel destino”, posta lui stesso a didascalia di una foto che lo ritrae ragazzino con il pallone, col vecchio logo dei Nets, tra le mani. Come dicevamo un mese fa, quando un campione di questo calibro dichiara di voler giocare con te, tu non puoi girarti dall’altra parte: semplicemente ti corci le maniche e vedi cosa puoi fare per imbastire il miglior sodalizio possibile, apri le porte a lui e a chi arriva con lui, crei le condizioni per trarne il massimo vantaggio.
Sgomberiamo il campo da ogni equivoco: anche il più ardito nostalgico di Russell deve convenire, con obiettività, che Irving, oggi, è un fuoriclasse fatto e finito con un ball-handling, una capacità di aggredire il canestro avversario, una dose di rispetto cucita addosso, nonché un’esperienza clutch e in chiave playoff tali da rendere indiscutibile l’immediato step up, per la squadra, nel ruolo di PG. Noi stessi vediamo in Russell un potenziale illimitato ma, con Irving, Brooklyn ha un top player pronto uso. Punto. Un campione di questo calibro è troppo per mettere in discussione la sua capacità di adattarsi al sistema di gioco di Atkinson: non deve piegarsi, ma semplicemente metterlo a frutto a proprio ed altrui vantaggio e lo farà. Non dimentichiamo mai che il core filosofico di Atkinson non è la strategia della motion offense in quanto tale, bensì mettere i giocatori in condizione di scegliere sempre tra più soluzioni di gioco. Con Russell e la crescita degli altri ragazzi si era fatto un bel balzo in avanti, con Irving ci sono le potenzialità per farne un sistema vincente. Con il rientro di Durant, c’è, fatta la tara alle sue condizioni atletiche, la certezza di essere nel novero delle candidate al titolo. Senza tema di repliche. Ad ogni costo. Sacrificando tutto il sacrificabile, salutando con dolore anche i veterani dell’exploit di aprile (Carroll, Dudley, Napier, Graham…) e, come accennato, usando il draft come merce di scambio…
Claxton &Hands. Pure due parole, sui ragazzi portati a casa la notte delle scelte, vanno spese. Non è dato sapere se sapranno guadagnarsi da subito un posto in rosa o se saranno destinati a Long Island per farsi le ossa. Per il primo, ala-centro leggera ma dinamicissima e con abile controllo della palla, c’è, forse, qualche possibilità in più: il reparto è corto e lui sembra crescere a vista d’occhio durante la Summer League. C’è tanta roba su cui lavorare per farne un giocatore da NBA, anche quella capacità di tiro dalla lunga di cui i Nets abbisognano come del pane. Per ora, solo un Rondae in fasce, più lungo e dalla mano più tonda. Ove mettesse a frutto le potenzialità e crescesse di peso, nulla di strano se fosse un Kurucs-bis. Il secondo sembra molto più lontano da una decente forma-pro: abile ma decisamente acerbo, buon palleggiatore ma dalle parti di un ruolo supercoperto, come quello di guardia, anche alla luce della recentissima firma di Theo Pinson, tornato dopo un solo giorno di UFA. Un caloroso in bocca al lupo ad entrambi!
I nuovi veterani. Irving, Levert, Harris, ovvero una top PG, uno dei migliori prospetti al mondo (mi assumo la responsabilità di quello che scrivo) e il miglior tiratore della Lega (idem come sopra, ma suffragato da cifre e Three Point Contest). Alle cui spalle Dinwiddie, Pinson, Musa, Prince (che a noi piace un casino ma forse destinato ad essere “prestato” alla frontcourt in attesa di Durant), forse il povero Hands. Là davanti, Allen, DAJ e poi solo rookie e mezzi lunghi (Kurucs, poco più che un esperimento da 4). Salta all’occhio che, a fronte di un pacchetto esterni di primissimo ordine, i Nets fossero un po’ a corto di big men e di esperienza in panchina, per poter ambire ad una RS vincente. Ecco perché occorre salutare con degno risalto le firme di due veterani il cui impatto andrà ben oltre l’attuale risonanza: Garrett Temple e Wilson Chandler! Il primo, per dare incisività ad una panchina che, lo scorso anno, è stata un vero punto di forza per i Nets, tenendo alti intensità difensiva e pericolosità dal perimetro, è arrivato quasi nel silenzio generale, nella stessa notte di Kyrie e Kevin. Il secondo, firmato ricorrendo alle room exceptions, sembra il naturale sostituto di Dudley e, credete, è chiamato ad un compito tutt’altro che agevole: aiutare i giovani a crescere e dare tanti minuti di sostanza su ambo i lati del campo, in un ruolo, quello dello stretch four, la cui importanza strategica nel sistema di Atkinson è pari solo alla penuria di candidati a ricoprirlo.
E che resta, a voler spaccare il capello in quattro, davvero l’unico tallone di Achille di una squadra che, se ripensiamo al primo numero di questa nostra rubrica, ci colloca a metà strada tra la commozione e il grido al miracolo.
In attesa del riscontro del campo, e del ritorno del campione… Chapeau, Captain Marks!