Ci siamo lasciati l’All Star Game, il suo spettacolo e le sue polemiche alle spalle da quasi un mese, varrà la pena di tirare le somme in quel momento preciso della stagione in cui termina la fase di avvicinamento al traguardo ed ha inizio il volatone finale, ciascuno dei trenta corridori con i suoi precisi obiettivi: chi per meglio posizionarsi in griglia playoff, tenendo d’occhio lo scatto o l’impasse dell’avversario più temuto; chi per staccare gli ultimi biglietti per la post-season; chi, infine, per perdere più partite possibili ed accrescere la speranza di pescare Williamson (piccolo off topic: appena rientrato…da par suo, nel frattempo, dall’infortunio al ginocchio). Eh, sì, noi di #all-around.net non la mandiamo a dire…
La confusione regna ancora sovrana, in apparenza, ma si tratta di un caos ordinato: Houston ha fatto registrare il record migliore di tutte, dopo l’ASG, ma ha perso smalto proprio nella sfida interna contro i Warriors, peraltro privi di Durant. I quali, dal canto loro, le buscano dai Suns…qualcuno insinua che giochino in pantofole, quando l’avversario non è di prima fascia: ci sta, anche perché, vincendo solo quando conta (Nuggets e ora Rockets e Thunder), hanno il primo posto in cassaforte.
L’altra faccia della medaglia è che, sempre dopo la kermesse di Charlotte, Warriors, Thunder e Celtics, per dire, hanno più o meno lo stesso record di Hawks, Bulls, Suns, Cavs e Grizzlies, cui il tanking, evidentemente, non sta togliendo il gusto del gioco e la voglia di esaltare le qualità dei propri rookie. Continueremo a monitorarne le evoluzioni, per capire se, come paventato da noi nel numero precedente, sia un primo, benefico effetto della riforma-Silver.
Mentre Knicks e Maverics continuano la propria caduta libera (e perfino l’astro di Doncic, fin qui luminosissimo, ne pare offuscato); mentre, ai vertici, nel frame stagionale in questione, spiccano le vittorie di Detroit che, però, ha subito una pesante battuta d’arresto sul più bello, incassando due autentiche lezioni dalle dirette concorrenti Brooklyn e Miami…ci accorgiamo, allora, che certezze, davvero, ne abbiamo poche e, per trovare il nostro centro di gravità permanente, dobbiamo individuare delle solide oasi di continuità.
San Antonio è, per antonomasia, la capitale della consistency: 22 anni di playoff con Popovich e non sembrano avere alcuna intenzione di fermarsi. Un gradino sotto, due perle per Conference: a Est, i Bucks sono, ormai, una certezza, ma i Pacers non smettono di stupire: privi di Oladipo, Matthews sta facendo il suo (clutch contro OKC) e Bogdanovic sembra aver fatto il definitivo salto di qualità al momento giusto. Non daremmo per scontato che sia l’avversaria auspicabile al primo turno playoff. A Ovest, i Blazers sono tra gli ossi più duri da rodere e hanno l’aria di chi aspetta sornione per dimostrare che non si tratta della solita fuffa destinata ad evaporare a contatto con l’atmosfera post-stagionale, forti del loro big three (perché, per me, Nurkic è una star, senza ammettere repliche!); i Clippers hanno rovesciato ogni pronostico, sovvertito gerarchie, stupito, perso Marjanovic, perso, soprattutto, Tobias Harris, hanno esaltato Gallinari e l’intramontabile e spettacolare Lou Williams (suo anche il buzzer contro i Nets) e messo in cassaforte un posto al sole proprio nel derby, suggellando la supremazia cittadina in faccia a sua maestà LeBron…Almeno per ora, a Los Angeles si è instaurata la repubblica. Con ampio merito. Chiudendo, peraltro, salvo cataclismi, il lotto delle migliori nella Western in modo definitivo. Resta solo da definire la graduatoria finale.
Nella Eastern, invece, tra il sesto e l’undicesimo posto sono ancora vacanti tre biglietti per il grande ballo. E, se è vero che Nets e Heat hanno un po’ frenato e sono attese da un calendario non proprio favorevole, mentre i Magic tengono botta, lo è anche il fatto che gli Hornets e i Wizards non stanno correndo più, anzi: con il passo tenuto nelle ultime dieci uscite, sarà dura rientrare in corsa. Tuttavia si tratta, secondo noi, della competizione più incerta e intrigante del finale di stagione, quel finale che, se vorrete, vi racconteremo, a modo nostro, nel prossimo numero.
Il crepuscolo degli dei. Un’intera generazione è cresciuta con poche, inossidabili certezze: la crisi economica, la disoccupazione crescente, le guerre umanitarie, i cambiamenti climatici, LeBron James ai playoff e poco altro. A quella generazione ci toccherà dire, con la durezza della realtà e la solennità del momento, che Babbo Natale non esiste: dopo l’illusoria vittoria contro il Barba e la dichiarazione di guerra proclamata da LBJ al mondo intero (“attiverò la modalità playoff in anticipo”, chi di noi non ci aveva creduto?), passati solo pochi giorni e buscatele di santa ragione da Grizzlies e Pelicans, i Lakers abbandonano ogni velleità di post-season proprio nella sera in cui il Re supera Michael Jordan per punti in carriera…
“Vedi com’è il basket?”, avrebbe salomonicamente chiosato il Maestro di tutti noi, se non fosse che, qui ed ora, non stiamo parlando della semplice esclusione dei Lakers dai playoff (a quella abbiamo fatto fatica a credere cinque anni fa, ormai ci abbiamo fatto il callo), né di quella del giocatore più forte dalla corsa al titolo (perché, grazie al cielo, siamo innamorati di uno sport di squadra e nessuno, neppure il Migliore, può vincere da solo: cosa che the chosen one dovrebbe ormai aver ben imparato a sue spese, dopo sei finali perse).
Qui stiamo fotografando il tramonto di un’era sportiva: quella nella quale, appunto, un uomo solo al comando sembrava in grado, col supporto di un cast di comparse o poco più, di scalare montagne, stravolgere classifiche, ribaltare fattori-campo e sovvertire gerarchie per prendersi la scena e, quantomeno, le Finals. Per intenderci: erano 15 anni che non ci era dato di assistere ad una post-season senza LeBron, il che vuol dire che, per tantissimi appassionati, sarà la prima volta: praticamente un battesimo, l’alba di un nuovo mondo cui affacciarsi con curiosità e non senza qualche timore.
Non è vero che avessimo sottovalutato le difficoltà: il trapianto in una città affamata e blasonata quanto lui, nel Selvaggio West dei Warriors e delle corazzate, con una squadra giovane e priva di altre star.
Neppure è vero che ci nascondiamo gli imprevisti, tutti sfavorevoli, che hanno minato la stagione gialloviola: non è da tutti reggere l’urto dell’infortunio del Re e della miriade di altri accidenti che hanno tenuto fuori, a turno o, spesso, in concomitanza, i vari Rondo, Ball, Ingram, Hart, Kuzma (tutti insieme sono stati disponibili si e no per un terzo della stagione!). No: non neghiamo che ci piacciano gli scoop e anche le provocazioni, ma mai a scapito del dovere di cronaca e dell’innato garantismo che ci spinge a considerare attenuanti generiche e specifiche. È una corte tutto sommato clemente, quella di #all-around.net.
E neppure godiamo nel recitare il più classico dei “noi lo avevamo detto”, quando, sbagliando, i Lakers hanno gettato sul piatto tutto quanto edificato finora, dal saluto di Kobe in poi, per inseguire un Anthony Davis che poi neppure è arrivato, minando fiducia e coesione alle fondamenta. Sta di fatto, piaccia o no, che una stagione già difficile, ma certo non irrecuperabile, è stata quantomeno ulteriormente complicata da un atteggiamento bulimico che ha finito per mangiarsi lo spogliatoio e il coach, ormai ai saluti.
La morale che emerge è che, nell’epoca del basket moderno, dei ritmi frenetici e degli atletismi straripanti, tutto spaziature e triple improbabili, neppure avere in squadra il più forte è garanzia di successo. O, per lo meno, di post-season. Il circuito stars & stripes è talmente ricco di campioni da riservare gli allori solo ai superteam, premia chi ha la pazienza di costruirli senza radere al suolo le vecchie fondamenta e senza fare il deserto intorno.
Nell’era del mercato globale, con tutte le sue contraddizioni, il big market cittadino, come quello di Los Angeles o New York, per capirci, è solo un fattore come gli altri e Milwaukee non è più solo un cantiere dove Alcindor diventa Kareem, regala un fugace sorriso e poi vola altrove per diventare leggenda, ma può perfino divenire un approdo, ove Enea può rifugiarsi e dare la stirpe ai fondatori di Roma, chissà.
Certo, è un’era molto pratica, materialista, se vogliamo, non è tempo di eroi romantici che prendono sulle proprie spalle un team e una città per regalar loro eterna gloria. Non più. Non nel selvaggio West, comunque. Pasqua viene una volta sola e la sensazione è che perfino da due anni a questa parte sia cambiato il mondo.
In pieno crepuscolo degli dei, ci resta la sola certezza dei Warriors che, tra fratture di spogliatoio, infortuni e tonfi clamorosi, ancora possono allacciarsi le scarpe al momento giusto e sbancare Houston o Oklahoma City senza fare una piega. Per ora. Dopo, si vedrà: altri Enea potrebbero salpare in cerca di lidi migliori e chissà che il Re appena deposto non stia già affilando le armi, dal suo esilio, per tornare più forte e tiranno di prima.
Tutto il resto è ancora corsa ai playoff, è avvolto nella nebbia e profuma di adrenalina: allacciamo le cinture e prepariamoci a viverla insieme.
Stay tuned