E venne il giorno… Attesa, in Ohio, come una inevitabile fatalità, come l’impatto di un asteroide o un’apocalisse nucleare, è finalmente giunta l’estate dell’addio di LeBron James, volato a Los Angeles per l’ultima fresh start alla ricerca dell’anello perduto, moderno Frodo in salsa baskettara, nell’eterna crociata contro il regno del Male (Golden State).
La reazione di Cleveland e di Dan Gilbert è stata molto più soft rispetto all’episodio precedente (2010), forse addolcita dalla riconoscenza unanime verso chi ha regalato a Cleveland il primo titolo della storia (2016), letteralmente strappandolo a mani nude ai fieri rivali per consegnarlo alla sua città, come la testa di Giovanni Battista alla sua Salomè, accompagnandolo con quell’indimenticabile grido liberatorio: “this is for you!”.
E tuttavia, al netto dei sentimenti e delle reazioni a caldo, è innegabile che l’abdicazione del Re segni la fine di un’era per la franchigia wine and gold e l’inizio di una traversata nel deserto che ha da subito richiesto l’adozione di una strategia. Abbandonarsi al più spregiudicato rebuilding, smantellando una squadra che, LBJ a parte, aveva fatto acqua quasi da tutte le parti prima dei playoff e subìto lo sweep nelle finals? Oppure evitare di gettare il bambino insieme all’acqua sporca, stringere i denti e cercare di restare competitivi, in vista della prossima estate, quando tutto sarà rimesso in discussione da una free agency che si preannuncia tumultuosa?
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Lo scetticismo intorno alla franchigia, ormai orfana dell’uomo con i cui destini si è identificata fino a finire inghiottita nel suo cono d’ombra, ha fin da subito rasentato il pregiudizio: Cleveland è LeBron, via lui, Cleveland non è più nulla! Eppure, pochi dubbi sembrano aver turbato il sonno della dirigenza, nella città “sfortunata” per antonomasia: si è optato, con decisione, per la busta numero 2, credendo (per ora) nella squadra, pur orfana del Prescelto, e restando sotto la soglia della Luxury Tax per poi, magari, cercare fortuna l’estate prossima. Un azzardo, certo, ma ha una sua logica.
The legacy. Del resto, non sarebbe stato facile optare per qualcosa di diverso: l’eredità lasciata da LeBron James e dalla sua fame di vittorie parla di un payroll saturo, in cui tutti i contratti più pesanti vanno a scadenza nel 2020, dunque di difficile collocazione sul mercato. Vero è che la prima scelta del prossimo anno, ceduta a suo tempo ad Atlanta nell’affare-Korver. è protetta fino alla decima chiamata, ma è anche vero che ora cambieranno le regole della lottery ed il tanking sarà meno certamente fruttuoso…
Anche l’orgoglio di Koby Altman, artefice (da rookie GM) del mercato scorso, deve aver giocato il suo ruolo inducendolo, anzi, a rilanciare coraggiosamente, tagliando la testa al toro (siamo già a due teste che cadono…) e trovando l’accordo per un sontuoso quadriennale con Kevin Love, l’uomo-chiave del mercato dei Cavs, l’ago della bilancia per le strategie future, a questo punto investito del ruolo di leader e star indiscussa della franchigia e chiamato ad una grande responsabilità, forse la più pesante che si possa immaginare in uno sport di squadra: quella di raccogliere il testimone e tenere alta la bandiera appena deposta dal miglior giocatore al mondo.
Conferma, sia pure molto più economica e tardiva, anche per l’eterno incompiuto Rodney Hood, giocatore versatile ma davvero in ombra nei mesi in Ohio, con la sorprendente eccezione di una sontuosa prova durante le finali, quasi la rabbiosa rivendicazione del proprio valore.
La squadra. Fatto sta che il roster con cui i Cavs si presenteranno ai nastri di partenza ormai a breve è, al momento (al netto di LBJ), pressoché lo stesso che conquistò le Finals tre mesi or sono, fatti salvi le partenze di Calderon, Green e Perkins e gli arrivi di Frye e Dekker (due lunghi tiratori, prendete nota…).
Il colpo dell’estate, però, senza tema di smentite, è da cercare non tanto nella FA, quanto nel Draft, dove Cleveland ha giocato al meglio la carta della prima scelta che fu dei Nets (acquisita lo scorso anno da Boston) pescando uno dei ragazzi più intriganti del primo giro, Collin Sexton, esplosiva PG già capace di rubare l’occhio in Summer League e, apparentemente, già pronta a dire la sua in NBA.
Il coach. Nell’eterno romanzo di Cleveland la sfortunata (quest’anno ci riprova in Major League, ennesimo titolo di Division e playoff conquistati con largo anticipo e senza sudore) non potevano mancare la suspance ed il mistero. Il personaggio che li incarna è Tyronn Lue, un titolo all’esordio da head coach e poi solo un mare di critiche, dimentiche di quanto possa essere arduo impugnare il bastone di comando in uno spogliatoio che aveva già il suo Re indiscusso. Lue è, adesso, chiamato a dimostrare non solo la sua abilità da stratega, ma anche a svelare la sua filosofia di gioco, fin qui inevitabilmente messa in ghiaccio dall’obbligo naturale di mettere la palla in mano a LBJ, che fosse at the point, in post o in qualunque altra posizione in isolamento. Partendo, LeBron gli ha spalancato il sipario e starà a lui, adesso, riempire il palcoscenico di idee e gioco per soddisfare i palati ormai raffinatissimi della Quicken Loans. Tyronn non ha mai allenato senza LBJ e dovrà, giocoforza, partire da alcuni assiomi: implementare la circolazione di palla, suddividere le responsabilità, rafforzare la difesa, mettere Love in condizione di rendere al meglio. Passatemi la cacofonia, ma si tratta di un nuovo noviziato, per lui, e nessuno può dire, oggi, con certezza quali direttrici vorrà seguire, quale starting five ha in mente, quale modello di gioco saprà sviluppare.
Proveremo a dire la nostra basandoci su alcuni indizi.
Cenni di stats. Facendo sempre riferimento alle statistiche registrate, nella passata stagione, dai giocatori confermati, in ordine sparso:
– ad avvalorare l’esigenza di ball sharing, ben sei giocatori-chiave (Nance, Love, TT, JR, lo stesso Osman, oltre a Frye) risultano in fondo alla classifica di squadra per percentuale dal campo in situazioni non assistite;
– nonostante uno scorcio di stagione in wine & gold non proprio esaltante, Hood risulta primo tra i suoi per rapporto assist/TO (4,2!), seguito a distanza da Nance e Hill, nonché il migliore degli esterni per punti realizzati nel pitturato (escluso LeBron, s’intende);
– Hill, Nance e Osman, insieme con Kyle Korver, Clarkson e lo stesso Frye, hanno mantenuto un defensive rating migliore della media di squadra (<109);
– ben otto tra i confermati hanno realizzato dall’arco una percentuale dei propri punti maggiore di quella media dei Cavs. Figurano, tra gli specialisti, oltre all’irrinunciabile KK, anche Smith, Frye (sempre presente), Love, cui vanno a mio avviso aggiunti il neo-arrivato Dekker, reduce da un’annata pessima, ma che aveva mostrato flash interessantissimi da lungo tiratore due anni fa, e sempre George Hill (si, è una mia convinzione).
Il gioco che verrà. Provando ad usare questi pochi spunti di riflessione come una lanterna, per far luce nel mistero imperscrutabile della filosofia futura, qualche indizio emerge. Ad esempio, la conferma di Tristan Thompson lascia presagire un asse consolidato ed ormai rodato con George Hill, così come la richiesta (legittima) di Kevin Love di giocare da ala grande, combinata con la scelta di riportare a casa Channing Frye e di firmare Sam Dekker, depone per un ruolo centrale da assegnare alla figura dello stretch four, prefigurando un gioco pace & space oriented, alla ricerca di più tiri aperti agevolata anche da un pacchetto di esterni ricco di specialisti. I grandi numeri suggeriscono un maggior impiego e più strategico, sia pure verosimilmente off the bench, di Rodney Hood e Larry Nance Jr., quest’ultimo in alternanza con TT e, a mio avviso, con un minutaggio crescente in funzione delle doti difensive e della maggior abilità nell’accettare i cambi, laddove la difesa sul pick and roll è stata proprio uno dei talloni d’Achille della già di per sé non eccelsa versione difensiva del Cavs 2017-’18. Cedi Osman, in virtù dei margini di miglioramento e dell’efficienza in ambo le fasi di gioco, sembra destinato a ritagliarsi i suoi minuti anche nello starting five (nel ruolo che fu del Prescelto…). Infine (idea del tutto personale), ove Collin Sexton dovesse confermarsi dando seguito a premesse ed aspettative (ed io sono pronto a scommetterci), vedo bene il ricorso al doppio play, combinando la naturale vocazione al drive del rookie con la certificata qualità off the ball di Hill.
Mercato chiuso? Direi proprio di no, anzi Cleveland resta un cantiere: già nei giorni scorsi è circolato insistentemente il rumor che vorrebbe un interessamento di Altman per Danilo Gallinari. Il condizionale è d’obbligo: si tratterebbe di una scelta quantomeno…naif, in considerazione dei costi elevati e della salute cagionevole del Gallo nazionale. Né si può escludere uno strategico cambio di rotta in corso d’opera, come accadde, sia pure per ragioni ed in una situazione completamente differenti, già la stagione scorsa.
Così come son messi oggi, nel deserto di stelle della Eastern Conference, con una star decisa ad assumerne le redini ed un buon parco-giocatori pronto a gravitarle intorno, con un coach carico di motivazioni e desiderio di rivalsa, i Cleveland Cavaliers sembrano pronti a misurare il proprio orgoglio ferito con il pregiudizio che li circonda, nutrito dalla storia e dal trono vacante che fu di LeBron, candidandosi al ruolo di vera e propria mina vagante della stagione alle porte.
Questa l’opinione personale, discutibilissima. Il dato di fatto non opinabile, invece, è che i Cavs rappresentino una delle realtà più misteriose ed affascinanti della stagione alle porte, con il loro romanzesco futuro oscillante tra orgoglio e pregiudizio (Jane Austen mi perdonerà…). Buttateci un occhio, perché il finale è tutt’altro che già scritto…