“Amore e Psiche: a chi sa regalarmi emozioni sempre, ad ogni sguardo”
Si è appena chiusa una delle stagioni più strane che io ricordi. E dire che alla mia veneranda età la memoria è piuttosto lunga. È nata con una fastidiosa cacofonia che non potevo non notare (gli infortuni) ed è proseguita in questo solco, di fatto determinando il ranking di fine stagione. Le squadre che ne hanno risentito meno hanno vinto le rispettive Conference: Toronto ha stupito tutti ad Est, al punto di vedere il proprio coach acclamato COY, salvo, poi, licenziarlo due giorni dopo a seguito dello sweep patito ad opera della fame di una Cleveland giunta al crepuscolo degli dei; Houston ha spiegato basket fino a sfiorare il cielo e l’impresa, per poi perdere il proprio giocatore-chiave (ancora per infortunio!) e cedere il passo alla Dinasty dei tempi moderni. Quando hai di fronte, tutti insieme, il buono, il brutto e il cattivo, non puoi permetterti di estrarre lentamente, né con una mano sola.
Eppure… i campioni hanno tanto vacillato da lasciare sulla propria strada verso le Finals una scia di se e di ma, creando qualche illusione: del resto, di fronte, avrebbero avuto the GOAT! Disumano, ciò che LeBron James ci ha regalato quest’anno. E non tanto per la lista interminabile di record e di statistiche da lustrarsi gli occhi, no: per averci mostrato che perfino una macchina apparentemente perfetta può continuare a migliorarsi. Che non solo al peggio, ma anche al meglio non c’è mai fine. Davvero non era (per me) prevedibile. E basterebbe questo, per ringraziare le divinità della palla a spicchi per avermi fatto vivere quest’altra annata.
Invece, in finale, ci penserà JR Smith ad indirizzare la serie. Involontariamente, dall’eroe che avrebbe potuto essere, dal segno inimmaginabile, sul corso degli eventi, che avrebbe potuto griffare, è divenuto il reietto cui è stata cucita addosso la lettera scarlatta. Un marchio indelebile, nulla da invidiare alla protagonista del romanzo di Howthorne, perfino in spregio ad una serie giocata bene, da valido gregario. Potrebbe scriversi un romanzo, su questo personaggio unico, ed un capitolo non basterebbe a raccontare la psicologia di quel tiro mai tentato. Ah, il basket, interminabile serie di sliding doors… Arte poliedrica e multiforme in movimento, un’esplosione di colori degna del miglior Van Gogh in cui personaggi in cerca di autore si rincorrono tessendo tele e girando film che hanno mille storie da raccontare.
Da quel non-tiro, i Cavs sono crollati mentalmente (quanto umorale e cerebrale è stata la finale, quest’anno? Dopo ogni vittoria sfiorata dai wine & gold è arrivata la batosta…) ed è come se un sacerdote sacrilego avesse strappato il velo di Maya: tutto è apparso più chiaro, il quadro nitido, i se e i ma hanno lasciato posto alla rassegnata certezza che la legge della giungla avrebbe costretto il Re a deporre nuovamente la corona. Novello Sisifo, aver sfidato gli dei lo ha condannato in eterno ad uno sforzo sovrumano ed inutile, fino alla sconfitta definitiva, quella che, forse, lo indurrà a cercare una nuova terra promessa, dalla quale lanciare un’altra sfida al cielo. La solitudine dei numeri primi è stata la sua maledizione, quest’anno. Ha avuto al suo fianco Wade, ed ha vinto. Ha avuto Irving, ed ha vinto. Troppo solo, quest’anno: don Chisciotte non potrà mai sconfiggere i mulini a vento, lancia in resta e qualche Sancho Pansa al suo fianco…
Ha affrontato una moderna, meravigliosa macchina da guerra armato di sé stesso e poco più. Ha chiesto ai suoi sudditi di seguirlo nell’ultima battaglia e loro lo hanno anche fatto: ha giocato bene, in attacco, Cleveland. Non sempre, non in modo continuo, soprattutto in gara 3. JR, come detto, Love, Hood, Thompson… Quintetto grosso, dominio a rimbalzo, voglia di lottare, sfruttare la capacità incontrastabile di LeBron di spaccare in due qualsiasi difesa, individuale e di squadra, quando in condizione di mettere il ferro nel mirino, dal palleggio. Non è bastato. Non poteva, obiettivamente, realisticamente, bastare. E forse lui lo sapeva già. Così come, in fondo, lo sapevamo tutti noi.
Perché, dall’altra parte, c’erano campioni secondi solo a lui, ed erano in tanti! E sono parte integrante di un solido, meticoloso, organico ingranaggio nel quale ognuno gira nel verso giusto, tutti concorrono al funzionamento del sistema ed il sistema stesso mette in condizione anche la più piccola rotella di rendere al meglio e perfino splendere di luce lunare, ma vivida.
E così abbiamo visto sorgere Javale McGee dalle proprie ceneri, immenso, novello Forrest Gump ai più noto per aneddoti extrasportivi e ludibrio in formato Shaqtin’ a Fool: è stato una delle chiavi di volta della strategia di Kerr! E basterebbe questo, la narrazione di un riscatto epocale, il mio automatico fare il tifo per lui, per ripagarmi di notti insonni.
Cleveland, a casa sua, ha prodotto qualcosa di stupendo, almeno in gara 3, erigendo in tre giorni mura sontuose per provare a difendere fort Alamo dalle truppe di Capitan Futuro. E quasi Sisifo è riuscito, per una volta, a far rotolare il masso dal pendio giusto del suo Calvario. Quasi, appunto. Perché, annullati gli splash brothers (hai detto niente!), ci si è dimenticati (oppure no, ma non c’era alcun modo per fermarlo) di un certo Kevin Durant, i cui squilli di tromba hanno polverizzato le mura di Cleveland come Giosuè fece con quelle di Gerico.
Fiaccata da cotanto Durant, la sentenza era nell’aria. E qui ci ha pensato Steph Curry, l’eretico, con il suo elogio della follia: fisicamente, uno di noi, con la sua arma a lunghissima gittata ha modificato l’idea stessa del gioco e costretto gli altri ad adattarsi. È lui, in gara 4, ad aver prodotto il verdetto finale, è lui ad aver condannato il Re alla ghigliottina: faccia d’angelo, uomo del popolo, rivoluzionario, inflessibile, il Robespierre del basket americano! Non gli sarà valso il titolo di MVP, ma il volto di Oakland è rimasto lui…
A scavare la fossa a Cleveland e, probabilmente, ad un’intera epoca cestistica, ha pensato Steve Kerr. L’ha studiata bene, come sempre. Ha saputo contenere la furia del Re, per quanto sia possibile difendersi da un treno in corsa. Ha saputo sincronizzare aiuti, rotazioni, ben definito le gerarchie, esaltato il ruolo dei comprimari. Soprattutto, salomonicamente, mettere a nudo i vistosi limiti difensivi dei Cavaliers aprendoli come un barattolo.
Facile, direte voi, con un tale esercito. Sono d’accordo, ma l’analisi sta tutta qui: non sempre occorre scavare, per trovare la chiave, a volte è lì, sotto gli occhi, chiede solo di essere raccolta ed infilata nella toppa. Non si scuserà, Steve, per aver ridotto le Finals ad una passeggiata, o quasi. Era nell’aria, era giusto ed ovvio così. Se questo è un male per il movimento (ed io non lo credo), Kerr incarna ed interpreta la banalità del male meglio di Hannah Arendt: ha insinuato i suoi uomini tra le pieghe della psiche avversaria, già labile, come zeppe, colpendo dove e quando fa più male.
LeBron lo sa. Lo ha sempre saputo. Il leone (per sua stessa ammissione postuma) ferito ha stretto i denti, ha combattuto da par suo raggiungendo vette dove solo aquile e dei del basket hanno osato. Ha incassato il colpo in gara 1. Ha reagito. Ha fiutato il nemico più pericoloso come un animale (il gioco di sguardi e parole con KD nell’incipit di gara 3, quasi sapesse in anticipo a chi mostrare la faccia feroce). Alla vigilia di gara 4 ha, infine, parlato chiaro, davanti ai microfoni: ha spiegato l’essenza del Gioco, ai suoi ed a chi continua a non capire. Ha provato a stimolare la “forza cerebrale” della sua squadra, ha chiesto ai suoi sodali di non fermarsi al canestro segnato o da segnare, di saper leggere tra le pieghe della partita. Ha chiosato con una lezione: per conoscere il Gioco occorre andare oltre, per costruire una squadra vincente bisogna puntare sulle “menti giuste”.
D’accordo, sul campo non è servito, ma la lezione resta, non occorre aggiungere altro.
È questa l’essenza del basket. Psiche, Dafne, Afrodite. Di questo abbiamo parlato. Ho trasposto stagione e finali in arte e letteratura, in cinema e mitologia, in Storia e perfino in Vecchio Testamento non per mero esercizio di saccenza (Dio me ne scampi!), né di retorica (non è nelle mie corde), tanto meno di originalità (di cui sarei reo confesso), ma per lanciare il mio anatema: se la palla a canestro, nella sua migliore espressione, è tutto questo, e molto di più, arginiamo il dilagare delle statistiche, impediamo che si ergano a giudice supremo, a categoria dello spirito!
Perfino l’ipse dixit aristotelico o il dogma dell’infallibilità papale sono stati sconfessati, non credo di commettere peccato mortale andando in controtendenza e gridando, con umiltà ma con vigore, che la poesia in movimento, racchiusa nel sincronismo dei gesti di cinque atleti, non può mai essere incarcerata in un algoritmo!
Le stats, soprattutto quelle più intelligenti, sono una cosa bellissima finché resta al giusto posto, che è quello di sottolineare un concetto, non certo e non mai quello di essere brandite come una clava contro chi si è fatto un’opinione diversa, né elevate a depositarie di chissà quale verità: il campo avrà sempre qualcosa di più da dire, non fosse altro che la malattia di Lue, oppure uno sguardo di LBJ.
La poesia è arte proprio perché parla a ciascuno di noi nella sua lingua, trasmettendo ad ognuno sfumature diverse, tutte degne di considerazione. Perché Amore e Psiche è un’opera plastica, maledettamente viva, in quanto scolpita nella pietra, non elaborata da un calcolatore!
Forse è solo il mio pensiero e conta il giusto, ma se lo dicono anche il Canova e LeBron….
Scritto da Marco Calvarese
Editato da Francesco Bertoni