Pat Connaughton è una riserva dei Portland Trail Blazers. Un onesto mestierante, un role player alla ricerca di una precisa identità e di un ruolo meno da comprimario nella galassia della Lega. Non un fenomeno, non un baby boomer, non un bump: scelto alla chiamata numero 41 nel 2015, gioca e rende per ciò che ci si aspettava, forse qualcosa di più. Sta crescendo, è vero, sta vivendo la sua stagione migliore al terzo tentativo, ma resta una figura di secondo piano. Per ora. Eppure fiumi di parole sono scivolati su carta e nell’etere sul suo conto. Paradossalmente, proprio nel suo momento migliore (questo), nessuno ne parla più. Nessuno, tranne noi, of course…
Perché? E, soprattutto, perché scomodare nientemeno che Giuseppe Garibaldi e Michael Jordan, figure che vibrano tra storia e leggenda nei rispettivi ambiti? Conviene arrivarci insieme, piano piano.
Innanzitutto devo dire di essere legato alla figura di questo ragazzone di chiara stirpe celtica fin dal suo ingresso nell’alta società dello sport pro: in primis, perché il suo percorso incrocia quello dei miei Nets, che saranno la sua porta d’accesso al basket che conta, selezionando il protagonista di questa storia al draft per poi impacchettarlo con Mason Plumlee (penultimo rappresentante bianconero ad un All Star Game) e spedirlo in Oregon per averne in cambio l’attuale veterano della squadra, Rondae Hollis-Jefferson. In secondo luogo, perché, finalmente, funge da valvola di sfogo per la mia seconda passione, l’altro universo sportivo il cui legame con il basket è talmente flebile da gravare per intero sulle spalle del buon Pat: il baseball, the game! Due mondi, appunto….
Nasce ad Arlington, Massachusetts, venticinque inverni fa, ma non viene dal nulla, non è un big bang, Pat: il padre è stato un giocatore di successo nel college football, lo zio ha sfondato nel baseball universitario. L’erede è appassionato di basket, ma, per non far torto a nessuno, le prova tutte: alla St John’s Preparatory School (high school) è quarterback sul tappeto verde, ala sul parquet e gioca più posizioni sul diamante! Roba da adolescenti, penserete… Pat l’irlandese, invece, non ne vuol sapere di specializzarsi: ha carattere, il ragazzo, è un vincente nato e coltiva il sogno di vivere da protagonista su tutti i fronti. Avete ancora dubbi? Sentite questa: la prestigiosa pagina di baseball “Perfect game” lo colloca trentatreesimo tra i prospetti scolastici, i Padres (San Diego, per i neofiti del “batti e corri”) lo chiamano alla fine della scuola, ma lui rifiuta non gli onori, non la gloria, ma sicuramente un mucchio di soldi, per andare al college e sviluppare il suo talento anche nel basket! Con quel braccio destro sa fare di tutto: a lanciare la palla ovale, ormai, ha rinunciato, ma il polso gli permette di disegnare arcobaleni dalla sua mano al canestro e sul monte di lancio manda la pallina dove vuole, ha varietà di soluzioni, se la cava con le slider e con le breaking balls ma, soprattutto, ha una palla veloce stabilmente sopra le 90 miglia orarie su cui non tarderanno a mettere gli occhi in molti. Pare un predestinato del gioco, ma c’è una settimana ben precisa che ha cambiato la sua vita, tracciando una nuova traiettoria per il suo destino: al National Tournament di Orlando, davanti ad una folla di osservatori, vive, probabilmente, il suo momento magico, irripetibile, facendo parlare di sé con una prova-monstre da 33 punti e 20 rimbalzi che gli vale, da sola, l’improvviso corteggiamento di almeno sei college prestigiosi.
Il suo criterio di scelta è uno solo: poter giocare a buon livello con palla a spicchi e guantone. Lo farà con Notre Dame Irish ed i risultati gli daranno ragione. Con la squadra di baseball produce un anno da sophomore semplicemente straripante: record da partente 4-2 con un ERA (earned runs allowed: sempre per i neofiti, il più semplice e significativo indice di efficienza per un lanciatore) pari a 1,71, roba degna del miglior Kershaw in regular season! Chiuderà la carriera universitaria con un ERA complessivo di 3,03, 105 strike-out e perfino due complete games! Benché non giochi per una delle università più prestigiose, non può non essere notato dagli scout: nel 2014 riceve la prima chiamata del quarto giro dai Baltimore Orioles, 121° assoluto: non male, per chi se ne intende e, a detta di molti osservatori, la chiamata avrebbe potuto essere molto più alta se non fosse stato per l’irrinunciabile, doppio impegno sportivo.
Che dite, il nostro Pat si fa condizionare? Finalmente in procinto di firmare un contratto pro, farà le sue scelte? Macché! Firmando, cede i suoi diritti agli O’s fino al 2020 e si assicura la partecipazione al torneo classe-A con gli Aberdeen Iron Birds (affiliati del farm system di Baltimora), ma strappa il consenso a completare gli studi e…la stagione da senior con la squadra di basket, a Notre Dame. Scelta coraggiosa, la sua, ma anche quella degli Orioles, disposti a rischiare pur di tenersi stretto questo talento naturale. Coraggiosa e gravida di frutti e belle sorprese: Connaughton vive la sua stagione migliore da senior, sfondando comodamente il muro del 40% dall’arco (42,3), mettendo insieme 12,5 ppg e 7,4 rpg, e ritagliandosi un posticino nella storia dell’università, risultando l’ottavo in assoluto ad aver collezionato più di 1400 punti e di 800 rimbalzi in carriera e guadagnandosi la nomina al terzo quintetto All-ACC. Dichiararsi per il Draft è automatico, il resto è lieto fine che vi ho già raccontato.
Il tutto mentre completa anche il torneo stagionale con gli Iron Birds, con sei partenze da starter ed un ERA pari a 2,45! Più che sufficiente perché gli scout del farm system degli Orioles non rinuncino alla speranza di un ripensamento e di un ritorno al diamante, per il nostro. Nel qual caso, potrebbe ambire ad un contratto di sei stagioni! Uno dei responsabili del settore lo ha definito “un talento da starter nelle Major” e tanto basta a giustificare l’investimento, finora a fondo perduto.
La scorsa estate Connaughton ha vissuto un momento chiave della sua parabola sportiva: scaduto il biennio garantito, non si è arreso, ha trascorso l’estate con l’amico e compagno Jake Layman a lavorare sul suo tiro, “per perfezionarlo, non semplicemente per buttare la palla verso l’anello 500 volte al giorno” (parole sue). Tirato a lucido fisicamente, roccioso, verticale (al pre-draft staccò 44 pollici da terra!), il 31 agosto scorso ha strappato l’estensione annuale e la sta sfruttando al meglio: agevolato anche dalla partenza di Crabbe (ancora i Nets, in un modo o nell’altro, nel suo destino…), da giocatore ai margini delle rotazioni, qual’era, ha visto incrementare in modo esponenziale il proprio minutaggio, sforando i 20′ a gara, assicurando punti e gioco dalla panchina.
Il tiro dalla lunga non gli ha mai fato difetto, ma pare più pulito e fiducioso. Schierato per lo più come shooting guard della second unit, sempre alla ricerca di situazioni di spot up, non disdegna un contributo nel creare gioco per i compagni. Ha un buon anticipo, ma soffre ancora troppo in difesa, specie nel tenere il primo passo, negli scivolamenti, sui blocchi. Ha i mezzi fisici per crescere anche in questa fase del gioco ed ha ampiamente dimostrato di avere voglia di smussare i propri difetti con il duro lavoro. Non demorde mai, Pat! Terry Stotts è soddisfatto e lo definisce “consistent”, termine che racchiude in sé tutto ciò che si può chiedere ad un professionista. È una definizione più che meritata: secondo per produttività dalla panchina (6,3 ppg, 37% 3P%, 2 rpg, 1,3 apg, +1,7 di plus/minus, offensive rating passato da 103,9 a 107,8, defensive rating da 109,1 a 106, migliore della squadra per rapporto assist/palle perse, queste ultime pressoché dimezzate), oggi Pat l’irlandese può, senza tema di smentite, essere considerato un giocatore importante nell’arsenale dei Blazers, un giocatore situazionale di tutto rispetto; difficile credere che non abbia mercato, a fine stagione! Sono certo che anche il 2019 vedrà questo ragazzone irlandese scoccare il suo catch and shoot o tagliare a canestro per concludere con l’ormai abituale schiacciata a due mani, la più difficile da coordinare ma anche la più funzionale, scevra da rischi di errori o di opposizioni.
Sogno del baseball archiviato, dunque? Se lo pensate, dovrò dichiarare fallita la mia missione: “Questi due sport sono stati sempre parte della mia vita”, dice lui. “Nel presente, sono esclusivamente focalizzato sul basket, provando ad assicurarmi la posizione migliore per avere successo in questo sport. Ma sono sicuro che arriverà il giorno in cui mi vedrete provare a salire su quel monte di lancio, lì al Fenway” (da un’intervista rilasciata a Boston, vicino casa…).
Già, perché Pat ha la testa dura, come tradizione irlandese vuole. Il suo sogno non è quello di emulare le gesta di ben più illustre predecessore: lui vuole di più. Anzi: in fondo, lo ha già avuto. Michael Jordan lasciò il basket, la prima volta, nel maggio del 1994 e si buttò nel baseball cercando fortuna con un contratto nelle minors, farm system White Sox (i “nordisti” di Chicago). Risultati altalenanti e cifre neppure malvagie (sono andato a spulciare gli archivi: una media-battuta .252, 51 punti battuti a casa e 30 basi rubate), ma nulla di che, nulla che potesse farlo brillare agli occhi degli scout, se non il nome impossibile da ignorare, forse anche ingombrante. Tim Tebow, star del football, sta tuttora annaspando nelle minors nel tentativo disperato di emergere anche nel baseball, con la discontinuità, i flash ma anche le tante delusioni tipici di chi è nato per fare altro, nella vita. Si tratta di casi isolati, più unici che rari, che hanno suscitato tanto clamore per l’altisonanza dei nomi in ballo, ma che, primeggiando in un preciso sport (stiamo parlando di Air Jordan, devo aggiungere altro?), per via dei casi della vita o di contingenze particolari hanno tentato di riportare alla luce le remote reminiscenze, i rudimenti ed i fondamentali di uno sport difficilissimo, praticato, nella migliore delle ipotesi, alle superiori, perché il baseball è lo sport nazionale per eccellenza e tutti, chi più, chi meno, hanno battuto qualche palla da ragazzi. Stop.
Con il nostro eroe, il discorso si fa più articolato e profondamente più interessante per gli appassionati di sport: qui siamo di fronte ad un atleta il cui talento, in ambo le discipline, è ampiamente certificato. Nonché di un uomo consapevole dei propri mezzi e delle difficoltà di convivenza tra due mondi tanto distanti fra loro, ma che, che lucidamente, ha scelto di non scegliere, di continuare a coltivare i suoi talenti, di emergere in entrambi. Facendo affidamento solo sulle proprie forze, sul fascino che è stato e che sarà capace di esercitare su chi avrà il potere di permetterglielo, sul supporto dei suoi cari. Ostinatamente, Pat continua ad allenarsi nei ballpark delle periferie di Portland insieme al padre, lanciando i suoi missili da oltre 150 chilometri orari: non si sta tenendo aperta una via di fuga nel caso il basket non gli garantisca un futuro. No: sta tenendo in caldo la strada che un giorno avrà la forza di percorrere. Per arrivare in Major League, così come è arrivato in NBA. E, come sta facendo nel basket, si batterà con tutto sé stesso per viverla da protagonista.
Un eroe, appunto: l’eroe dei due mondi. Meglio di Sua Maestà Michael Jordan.