Il Martin Luther King’s Day non sfata il maleficio dei derby per i Nets, alla terza sconfitta su tre sfide di questa regular season (104-119). Con Hardaway tenuto a riposo, anzi, il senso di impotenza trasmesso da Atkinson nella sfida con Hornacek, se possibile, si fa ancora più palpabile, si materializza minuto dopo minuto, diviene concreto ed insormontabile in un ultimo quarto che spazza via ogni illusione dando il là alla festa arancio-blu, tanto più cocente perché subita tra le mura amiche.
C’è tanto su cui riflettere in casa bianconera, dopo due partite con Dinwiddie a 3-19 dall’arco, Okafor ai margini delle rotazioni ed un Levert che pare regredito soprattutto come sorgente di gioco. I Nets sembrano la bella incompiuta: ogni volta un’illusione, flash di grinta e spettacolo che si spengono come fuochi fatui. Atkinson sembra in difficoltà ad inserire in nuovi arrivati, come temesse che possano scalfire le sue certezze gerarchiche e, soprattutto, dà di nuovo l’impressione di fare fatica a correggere il piano-partita quando va fatto, quando non funziona.
Anche ieri sera, in un primo quarto equilibrato (24-26), mentre Hornacek trovava alternative soddisfacenti ad un gioco in post che sbatteva contro un discreto primo argine opposto dai bianconeri (decisamente facile, quando si ha a disposizione un lungo versatile come l’unicorno…), Dinwiddie trovava un muro di fronte ad ogni accenno di giochi a due, ma l’unica risposta della casa erano forzature dall’arco da parte di mani che, fin dalle prime battute, sono apparse gelide come gli inverni nella Grande Mela.
È la difesa ospite a dettare la legge del più forte nell’economia del secondo parziale, senza alcun paracadute sociale per i Nets: se la tattica di Hornacek è flessibile, la strategia è granitica: la difesa sul pick and roll è ben studiata e resterà la chiave della partita (come lo fu anche nelle prime due stracittadine). Porzingis (percentuali da urlo, ma senso della posizione difensivo, che si legge sul campo e non nei numeri, che, da solo, basta e avanza per vincere la partita) cambia sul blocco e oscura ogni varco a canestro al buon Spencer, che è costretto a ricominciare da capo, senza, peraltro, trovare alcun compagno libero, senza aver creato alcun vantaggio. Vista la mano dei tiratori bianconeri, gli ospiti sembrano battezzarli sul perimetro: a loro basta collassare nel pitturato per avere buon gioco e lasciare agli avversari la miseria di 18 punti nel quarto (42-52).
Le spaziature dei Knicks sono agevolate dalla multidimensionalità di KP. Con Ntilikina i giochi a due si sviluppano per lo più sul perimetro laterale, il pick and pop è una soluzione facile e senza risposta. Quando, però, il -14 sembra una pietra tombale sulla gara, condotta sempre in controllo assoluto da parte degli ospiti, ecco la fiammata bianconera illuminare la scena e dare un senso alla serata. Il tanto vituperato smallball confeziona la giusta risposta alla mancanza di pace and space dei Nets: ora sì, che i cambi difensivi hanno un senso, ora sì, che si può sopperire alla soverchia differenza di stazza cercando la pressione sulla palla e l’anticipo sulle linee di passaggio. C’è modo di correre e di trovare canestri facili, laddove la difesa schierata, invece, somigliava alle mura di una fortezza militare: 39 punti a segno per i Nets nella terza frazione e manca un niente, solo un po’ di buona sorte, per rimettersi in gioco, quando si ha addirittura tra le mani la palla del pareggio (81-83).
Acy spiega in modo pratico come mai giochi tanti minuti senza aver dimostrato il benché minimo merito, né progresso, alla conclusione (anche ieri 3/9 dal campo): il suo senso della posizione nella propria metà campo e la sua capacità di partecipare alla manovra sul perimetro altrui ne fanno una pedina-chiave in termini tattici. Cosa che Zeller non è; che Okafor, relegato in post e pressoché avulso dalle manovre su ambo i lati del campo, ancora non impara; che Allen, invece, ancora è lontano dall’essere, pur avendone le stimmate.
Prova ne sia il plus/minus: +5 in 22′ il #13, -14 in 15′ il rookie diciannovenne. Il cui rientro in campo, in coppia con il suo naturale pigmalione Levert, da il là, involontariamente, al breack decisivo. Quello che, nel giro di pochi minuti, porta New York al ventello di vantaggio trasformando il finale in garbage time. Come mai? La domanda va posta al geniaccio di Hornacek: laddove lo switch aveva spento le velleità del pick and roll di Dinwiddie, sono gli show di O’Quinn a disturbare le onde radio tra Caris e Jarrett Allen. Fatto sta che, anche con l’asse portante della second unit, ai padroni di casa non riesce una giocata che sia una, mentre il rientro di Porzingis, le giocate in backdoor e la capacità di correre di Beasley esaltano il gioco in velocità ospite ed il senso dello spazio in campo avverso: le percentuali oltre il 50 e la chirurgia dall’arco, nonostante Hardaway sia in borghese a fare il capopopolo (anche in modo provocatorio), si spiegano, soprattutto, così. A nulla vale il rientro di Dinwiddie, a nulla il doppio blocco per mandarlo in penetrazione: i lunghi in maglia bianca scivolano sotto canestro ed il ferro diventa fuori tiro. Disturbante, addirittura, l’insistenza con la quale i Nets si ostinano a cercare di farsi largo nel traffico, che è esattamente la trappola nella quale li indirizza Hornacek: le 10 stoppate subite in partita (dicasi 10), sono la naturale conseguenza. I contropiede spettacolari dei Knicks la ciliegina sulla torta di una festa che inizia con largo anticipo. O, se preferite, il coltello nella piaga per chi la guarda dall’altra sponda dello Hudson.
Quanto fa male il cugino fortunato, ricco e prepotente che viene a festeggiare se stesso, tirandosi dietro l’intera comitiva, a casa propria?