Tanto tuonò che piovve. Covava da tempo, malcelata sotto le ceneri del formale rispetto dovuto all’istituzione, l’insofferenza dei Campioni e di tutto (o quasi) il panorama NBA verso il presidente più ambiguo e controverso che la storia recente degli Stati Uniti ricordi. È bastata un’uscita infelice (l’ennesima) da parte di Donald Trump a scatenare l’inferno, a colpi di tweet, culminato nel comunicato ufficiale dei Golden State Warriors: per la prima volta in 160 anni di tradizione, una squadra campione non si recherà ala Casa Bianca per ricevere i meritati onori dal Presidente in carica degli Stati Uniti d’America. Un segnale forte di rottura, in un Paese profondamente riguardoso verso le proprie tradizioni. Tanto forte da oscurare, quasi, il botto finale della offseason, la trade che ha portato Melo ad Oklahoma City!
Gli antefatti. Non è stato un fulmine a ciel sereno. Il 12 agosto scorso, a Charlottesville, Virginia, un corteo di suprematisti bianchi, neofascisti, neonazisti, membri del Ku Klux Klan, suscitava la reazione popolare, sotto forma di contromanifestazione antirazzista. Ne nacquero scontri, culminati nella morte di una manifestante. Chiamato a giudicare l’accaduto, cioè a fare…il Presidente, Trump abbracciava, invece, una linea di imbarazzante equidistanza, affermando che le colpe degli incidenti andavano equamente suddivise tra le due parti e che vi erano “belle persone” anche tra i suprematisti (sic…). Dichiarazioni condannate più o meno unanimemente dal mondo politico e non solo: subito dopo l’accaduto, Kevin Durant ha aperto il fronte del No, dichiarando (il primo a farlo esplicitamente) che lui, alla Casa Bianca, non avrebbe messo piede perché (testuale) “non rispetto il suo inquilino”. Fino a ieri trattavasi, comunque, di voce isolata, ancorché autorevole: i GSW restavano formalmente possibilisti.
Fino a ieri, appunto…quando Trump, impegnato in un comizio elettorale locale in Alabama, ha pensato bene di abbandonarsi, a braccio, ad un anatema di inaudita veemenza contro quei giocatori che mettono in atto gesti simbolici di protesta durante l’esecuzione dell’inno nazionale, chiedendo esplicitamente, a loro discapito, draconiane misure da parte dei proprietari delle squadre (della NFL, nella fattispecie). Il POTUS faceva evidente riferimento al caso di Colin Kaepernick, giocatore dei San Francisco 49ers che aveva osato inginocchiarsi durante l’inno per richiamare l’attenzione di massa sui maltrattamenti riservati dalle forze dell’ordine ai neri americani. “Prendete quel son of a bitch (si, il Presidente degli Stati Uniti d’America, in un comizio pubblico, ha detto proprio così) e portatelo fuori dal campo. Licenziatelo!”, tuonava dal palco il nostro Donald, invitando gli spettatori ad abbandonare gli spalti in segno di… protesta contro la protesta.
Steph Curry. Apriti cielo! Dopo la reazione piccata da parte del commissioner NFL Roger Goodell, che parlava apertamente di mancanza di rispetto verso la sua Lega, il suo sport ed i diritti dei suoi giocatori, dopo la prima manifestazione emulativa ad opera di Bruce Maxwell (Oakland A’s, Major League), inginocchiatosi a sua volta durante l’inno (ne sarebbero seguite molte altre, da parte di atleti impegnati in tutti gli sport professionistici), era in programma il media day di apertura della preseason dei Golden State Warriors (in pratica, una sommossa californiana…) e Steph Curry non le ha mandate a dire, trasformandolo in un evento anti-Trump: “decideremo come una squadra, ma il mio voto sarà per non andare (alla Casa Bianca, ndr)…per un gesto che possa influire su un cambiamento”. Cosa fa, allora, il Presidente? Dichiarazioni distensive? Un comunicato ufficiale? Macché, risponde piccato con un tweet, con il quale, in pratica, chiude le porte della Casa Bianca al nostro #30!
Le reazioni dal mondo NBA. Da qui in poi, le cateratte si aprono ed è un florilegio di dichiarazioni, pubbliche e a mezzo dei social, da parte dei grani nomi del panorama cestistico americano, da LeBron James, che decisamente…la tocca piano (“era un grande onore andare alla Casa Bianca, finché non sei arrivato tu!”), a Kobe Bryant, che stigmatizza l’effetto divisivo del POTUS ed ironizza sul suo slogan, passando per Magic Johnson, Chris Paul (non una star qualunque: il presidente della NBPA!) per arrivare fino ad Adam Silver, il quale spiega a Donald Trump come tenere un profilo istituzionale, pur schierandosi neppure troppo velatamente dalla parte dei suoi giocatori (“ero a favore della visita dei Warriors alla Casa Bianca, pensavo fosse un occasione per condividere certe idee con il Presidente. Peccato. Tuttavia, cosa più importante, sono orgoglioso che i nostri giocatori abbiano un ruolo attivo nella comunità e sostengano le loro idee su argomenti di importanza critica”).
Ahi, mr. President… Al di là del racconto dei fatti, ben consapevole di muovermi in precario equilibrio sul sottile crinale che separa il dovere di cronaca sportiva, su tutto ciò che si muove intorno alla galassia NBA, e la critica politica che, al contrario, non è né il nostro “mestiere” né, soprattutto, la nostra mission, pure qualche osservazione sulla vicenda va fatta. Chi scrive ha la presunzione di farlo al di là di ogni ragionevole sospetto di parzialità, avendo, lo scorso anno, pubblicamente lanciato il proprio ben poco autorevole endorsement in favore proprio di Donald Trump.
Ha fatto molto male i Suoi conti, signor presidente. Lei non ha il minimo senso delle istituzioni, di ciò che incarna fin dalla data del suo insediamento, e neppure della Sua caducità: la stragrande maggioranza del popolo che Lei è chiamato a rappresentare si riconosce nei principi della Costituzione sulla quale, Le ricordo, Lei ha prestato giuramento (“tutti gli uomini sono stati creati uguali”) e vuole un Presidente che unisca e non che divida, e neppure vuole saperne nulla di razzismo e boiate simili. No, i Suoi concittadini non diserteranno gli stadi, i ballpark o i palazzetti, né li abbandoneranno di fronte a pacifiche manifestazioni del libero pensiero. Al contrario molti, anche Suoi elettori, probabilmente si ricorderanno di certe inutili diatribe, dello smacco dei campioni che rifiutano i Suoi omaggi, e in essi continueranno a riconoscersi, permeati come sono di una lodevole cultura sportiva che Lei, invece, dimostra di ignorare, nella migliore delle ipotesi.

Il team californiano by GettyImages
Fa molto male, Donald Trump, a sottovalutare la portata e la possibile durata di uno scontro frontale con il mondo dello sport professionistico, uno dei pochi in vertiginosa ascesa in termini di visibilità, consensi e profitti.
Comportandosi, nel migliore dei casi, come un qualsiasi avventore alticcio di un qualsiasi, fumoso pub del profondo Missouri, rispondendo attraverso i social in modo istintivo e non razionale, facendosi beffe dei tradizionali canali comunicativi presidenziali, il magnate prestato alla politica sta mostrando il suo volto peggiore, sta solleticando la pancia del suo elettorato per lucrarne qualche applauso in più. Qualcuno, però, dovrebbe indurlo a più miti consigli, magari ricordandogli che la campagna per le presidenziali è finita da un pezzo e che, qui ed ora, il suo compito sarebbe quello di incarnare il Presidente di tutti gli americani. Con i suoi comportamenti personalistici, istintivi e non convenzionali, egli sta abdicando al suo ruolo e avocando a sé e legittimando le critiche che gli sono piovute addosso. A lui, sia chiaro, non all’istituto della Presidenza, non a ciò che la Casa Bianca rappresenta.
Nel rapporto che il Presidente degli Stati Uniti, volente o nolente, è chiamato a stringere con il mondo dello sport professionistico e con la NBA in particolare, Trump si sta muovendo con l’eleganza di un elefante in una cristalleria: temiamo fortemente che i sedimenti del caso Curry – Golden State si trascinino lungo tutta la durata del suo mandato, generando una pericolosa frattura istituzionale che gli americani, pur con tutti i loro difetti, non meritano. E questo perfino al di là delle questioni razziali, che rimangono, dolorosamente, tra le più profonde e vergognose contraddizioni della società nordamericana. E che lo sport professionistico, per forza di cose, ha, invece ampiamente superato, potendo ergersi a viso aperto come elemento progressista di punta nel tessuto sociale e culturale del Paese.
Nell’esercizio dell’ars diplomatica, infine, Donald Trump sta mostrando la stessa dimestichezza che il sottoscritto ha con l’uncinetto. E questo, purtroppo, non solo e ben oltre i rapporti con le leghe dello sport professionistico… Se questo è l’uomo che ha in mano il destino anche militare di mezzo pianeta…Dio ci salvi, o chi per lui (ci accontentiamo anche di un Putin qualsiasi).

La protesta di un tifoso dei Warrios durante le Finals di questa estate
Oppure, meglio ancora, che sia un vero leader ed un uomo di sport a salvarci!
Steve Kerr for president! Mi piace sdrammatizzare e chiudere con una nota di ottimismo, che non può che venire, appunto, da un uomo di sport. Perché un vero leader, oltre che per le azioni, si esprime anche nell’uso oculato delle parole: parlare poco, bene e solo quando serve. E lasciare tutti senza parole. Ecco allora Steve Kerr, dopo aver sapientemente fatto da pompiere fino alla presa di posizione ufficiale della sua squadra, vestire i panni dell’immortale Clint Eastwood, quello dei capolavori diretti da Sergio Leone, e annichilire senza appello il Trump-pensiero con due sentenze.
“Libero pensiero i cori pieni di odio dei neonazisti e non quello di inginocchiarsi per protesta?”… e, soprattutto, alla domanda di un cronista, se fossero stati i fatti di Charlottesville ad indirizzare le decisioni dei suoi Warriors: “no, perché mai? Lì c’erano belle persone da ambo le parti”… Semplicemente, definitivo!
Se mai prenderò, un giorno, la cittadinanza americana, sarà per rendere omaggio all’amore che nutro per quella cultura, per quello sport e, da oggi, anche per riservarmi il diritto di gridare a pieni polmoni: Steve Kerr for president!
Marco Calvarese