La National Basketball Association è un gigante che scoppia di salute: sempre più incassi, sempre maggior interesse mediatico, sempre più seguito…Repeat! Si è, ormai da anni, innescato un circolo virtuoso che nutre e rafforza, senza soluzione di continuo, l’impero sportivo della principale lega di pallacanestro mondiale.
La macchina che governa questo mondo dorato pare invincibile: tutto, dal salary cap alle svariate tipologie contrattuali, è regolamentato in maniera minuziosa in modo da creare equilibrio, competizione, successo, facendo sì che le trenta franchigie partano tutte, secondo la migliore filosofia americana, con le medesime possibilità.
Il tetto salariale è in costante crescita (circa 25 milioni di dollari in più in due anni, vado un po’ a memoria…), grazie ai nuovi diritti televisivi, e questo si riflette nei contratti (faraonici) dei giocatori, ne abbiamo avuto prova in modo clamoroso proprio questa estate. Niente moralismi: è la legge del mercato! Se l’accetti, più incassi produci, più guadagni.
Tutto perfetto, quindi…oppure no? Ogni gigante ha il suo punto debole, probabilmente più d’uno, ma ve n’è uno in particolare del quale periodicamente si torna a discutere ma su cui nessuno, finora, ha mosso un dito, ivi compreso il commissioner Adam Silver, che pure si è sovente espresso con forza contro questa piaga: il tanking! In due parole, per i meno addentro allo sport americano, quella pratica oggettivamente antisportiva che induce le squadre ormai tagliate fuori dalla corsa per i playoff a mettere in atto sotterfugi vari, primo fra tutti (ma non unico) lasciare a riposo i propri giocatori più forti, per perdere il più possibile, scivolando, così, in fondo al ranking della Lega, per aumentare le probabilità di avere a disposizione una chiamata altissima al draft successivo.
Le squadre in lottery (tra la prima e la quattordicesima chiamata), infatti, si vedono sorteggiare la posizione al draft per estrazione. Nell’urna, si hanno tante più palline con i propri colori quanto più basso è stato il piazzamento in stagione. Dunque, molte, molte più chance di estrarre la prima, o la seconda, nella peggiore delle ipotesi la terza chiamata, classificandosi nelle ultimissime posizioni. Il meccanismo, pensato con il nobile scopo di riequilibrare le sorti del campionato grazie all’innesto dei migliori prospetti universitari, ha prodotto questo sconfortante risultato, per cui il tifoso è combattuto tra il naturale desiderio di veder vincere i propri beniamini e l’innaturale ma proficua velleità di perdere per vedere la star NCAA più di grido vestire la canotta con i propri colori!
Pochi giorni or sono, in un’intervista rilasciata al Palm Beach Post, il presidente dei Miami Heat, il vulcanico ma pragmatico Pat Riley, ha volutamente portato il discorso proprio sul tanking, lanciando una clamorosa proposta che ha suscitato immediato ma effimero scalpore, che pure, invece, meriterebbe approfondimento e dibattito! Citiamo testualmente:
“La stagione regolare termina di martedì, i playoff iniziano la domenica. Da mercoledì a sabato facciamo giocare un torneo per le pick. Questo metterà fine a tutta quella robaccia [traduciamo sommariamente, omettendo l’irripetibile (ndr)] del tanking…..Credo che ciò creerà un notevole seguito di tifosi ed un grande interesse”…”Giochiamocela, facciamo una sorta di playoff per le scelte, invece di affidarci a delle palline da ping-pong!”…”Un conto è far riposare i giocatori in vita dei playoff, questo ci sta. Altro sono le squadre che non hanno chance di playoff e fanno riposare i loro giocatori migliori: tutti sappiamo perché lo fanno. L’ho fatto anch’io. Tutti abbiamo provato a farlo per conquistare le posizioni più favorevoli”…”Proviamo a creare una competizione. L’idea è che le squadre non in corsa per i playoff vorranno comunque provare a mettere i loro uomini migliori sul campo per trovare la giusta chimica in vista del torneo di quattro giorni, per vincere più partite, ovvero conquistare una scelta più alta”.
In soldoni, la proposta di Riley consisterebbe nell’imbastire un veloce torneo a 14 squadre (tutte le escluse dai playoff), mettendo in palio le scelte al draft successivo, assegnando la prima alla vincitrice, la seconda alla finalista perdente, e così via, fino alla quattordicesima all’ultima classificata.
Basterebbe questo a disinnescare il fenomeno del tanking? Con qualche accorgimento, probabilmente, si: se la motivazione a schierare sempre i propri giocatori migliori “per cercare la giusta chimica in vista del mini-torneo” pare un po’ troppo esile, si potrebbe agevolmente perfezionare la proposta garantendo vantaggi alle meglio classificate in regular season, come, ad esempio, il passaggio diretto al secondo turno per le prime escluse dai playoff o il vantaggio del fattore campo per chi ottiene più vittorie (come accade nei playoff, appunto!).
Il vero problema, a nostro parere, è un altro: la logica del mercato! Tanto, tantissimo mercato ruota intorno alle pick, che vengono scambiate con giocatori pronto uso, vengono inserite nelle trade per renderle più appetibili, hanno tanto più valore quanto più la squadra che le cede ristagna nei bassifondi: come cambierebbe il valore di queste pick, negli scambi di mercato? E ancora: le squadre che hanno già ceduto le proprie scelte per il draft successivo (clamoroso l’esempio dei Nets, le cui scelte sono ancora nelle mani dei Celtics) come potrebbero trovare le giuste motivazioni durante il torneo? Probabilmente sarebbero motivate a perdere, piuttosto, ed il problema rischierebbe di riproporsi… Se non altro, però, il tanking durante la stagione regolare non avrebbe più ragion d’essere e molti risultati non ne verrebbero falsati!
Follia? Boutade? Può darsi. Eppure…il proposito di affidare anche “il futuro” al verdetto del parquet non merita di essere lasciata cadere nel vuoto: ball never lies! Intanto, Riley ha avuto il merito di gettare il sasso nel lago, in cui le acque erano da troppo tempo stagnanti. L’idea, per quanto grezza e futuribile, non è peregrina: può risolvere un problema e, nel contempo, generare incassi. Sta anche a noi tenere desta l’attenzione sull’argomento e non lasciarlo cadere nel dimenticatoio, bollandolo come una forzatura o lasciandolo scivolare tra le mille manifestazioni di folklore statunitense, magari distratti dalla frenesia della free agency.
Tempo per elaborare meglio la proposta smussandone i difetti e colmandone le lacune ce n’è: sarà quello necessario a rilanciarla e ad acquisire il consenso degli altri proprietari intorno ad essa. Pensaci meglio, ma pensaci ancora, Pat!