Sono passati sette giorni dalla notte triestina che ha riconsegnato la Virtus Bologna alla massima serie. E, come scritto dai tifosi virtussini su uno striscione, forse ancora gli stessi protagonisti di questa stagione ancora non si rendono bene conto di quello che hanno fatto. Sì, perché se poco più di un anno fa eravamo su queste righe a stendere il manuale della retrocessione perfetta, oggi la Virtus Bologna cavalca l’entusiasmo di una stagione da dominatrice, culminata con un playoff partito in sordina ma poi letteralmente fagocitato dalla classe e dalla voglia di vincere di un gruppo che, all’alba di questo campionato, nessuno si aspettava davanti a tutti sul traguardo finale.
E i motivi per farlo c’erano, eccome. Rimettere assieme i pezzi della disastrosa stagione 2015/2016 non era impresa semplice. Tra società e pubblico si era creata una spaccatura abbastanza netta. La retrocessione aveva portato la perdita di tutti i giocatori sotto contratto, con partenze dolorose come quella di Simone Fontecchio, prodotto del vivaio perso a zero. E all’orizzonte si stagliava un campionato tremendo, con trentadue partecipanti, un solo posto al sole e una società senza le possibilità economiche di costruire una squadra con il potenziale per ammazzare il torneo.
Da queste premesse tutt’altro che incoraggianti, però, si è ripartiti con grande presenza, facendo tanti piccoli, semplici passi che alla lunga hanno portato a un risultato che va di diritto nella bacheca bianconera insieme a trofei di ben altro spessore sportivo, ma che a livello morale vanno inquadrati sullo stesso piano. Il primo a gettare le basi per quanto sarebbe venuto è stato Alberto Bucci. Buttato a capitanare una nave che ormai imbarcava acqua da tutte le parte nel finale dello scorso campionato, si è accollato il peso umano della prima retrocessione sul campo, ripartendo con il primo intento di riportare i virtussini al fianco della Virtus, per sentirla di nuovo la propria squadra. Nessun proclama, parole chiare sin da subito: squadra costruita da sette senior e tre/quattro under, per cogliere l’occasione di lanciare ragazzi del settore giovanile. Si sarebbe lottato per fare il meglio possibile, più di così non si poteva promettere.
Nella generale indifferenza sono arrivati i primi colpi di mercato, che poi sono stati i nomi forse più decisivi: Alessandro Ramagli in panchina, coach navigato, con grande esperienza di categoria e, come venuto fuori a stagione in corso, di enorme spessore umano. Guido Rosselli e Klaudio Ndoja in campo a portare qualità e l’esperienza di chi la A2 l’aveva già vinta in passato. Poi Gabriele Spizzichini, cambio tutto fare per gli esterni, e Marco Spissu, 21enne reduce da una discreta stagione a Tortona, a cui dare chiavi in mano della regia, da condividere con il giovane Lorenzo Penna, primo dei prodotti locali da valorizzare. Il ritorno di Andrea Michelori forniva alla squadra esperienza e muscoli sotto canestro, per dare minuti di cambio ai lunghi. A chiudere il cerchio i due USA: Kenny Lawson, miglior centro della passata stagione a Recanati, su cui aleggiavano dubbi sul fatto che ripetesse certi numeri in una squadra con altri obiettivi di classifica, e Michael Umeh, guardia con tiro mortifero, reduce dalle Olimpiadi con la Nigeria. Tommaso Oxilia, Alessandro Pajola e Danilo Petrovic avrebbero completato il quadro dipinto dal GM Julio Trovato e dal DS Valeriano D’Orta.
Tutti nomi che ad agosto avevano scaldato poco una piazza poco avvezza a questi palcoscenici e che già si sperticava in giudizi che oggi sembrano più battute da cabaret che altro: squadra raffazzonata, troppo corta per competere, con giocatori ormai cotti e americani scarichi, tra chi auspicava un ingresso ai playoff con una della ultime posizioni e chi, addirittura, narrava di tenere alta la guardia per non rischiare un doppio salto all’indietro. Così, in un clima di generale freddezza, la squadra ha potuto lavorare in maniera serena. Le prime uscite di preseason hanno mostrato subito un gruppo interessante e l’avvio di campionato, superato il doppio KO con Ravenna e Ferrara, è stato letteralmente trionfale. La squadra si è scoperta rullo compressore in casa e, anche grazie a un calendario favorevole, in trasferta non ha mai steccato, nonostante l’assenza costante di Ndoja, impegnato a recuperare a cronici problemi a una caviglia che lo avrebbero tenuto fuori fino a febbraio. La conseguenza sono state undici vittorie consecutive, culminate con il trionfo nel Derby di gennaio, giocato il giorno dell’Epifania, con la prestazione strepitosa di Michael Umeh, diventato istantaneamente idolo della tifoseria.
Il pubblico si è visto sin da subito. Nonostante, come detto, una generale freddezza nei giudizi, sin dall’esordio l’Unipol Arena ha avuto un contorno di spettatori sempre intorno alle quattromila unità, nonostante prezzi non esattamente accessibili, l’unica pecca da imputare a questa società, con il culmine degli oltre novemila per la stracittadina dell’Epifania. Chiuso il girone d’andata saldamente al primo posto e vinta la Coppa Italia di categoria, è arrivato il punto di svolta della stagione, con Massimo Zanetti, patron della Segafredo, che si è issato alla presidenza della società, stanziando nuovi fondi e tirando giù la maschera: l’obiettivo sarebbe stata la promozione. Subito dentro Davide Bruttini da Brescia, un altro con due promozioni alle spalle, per allungare le rotazioni sotto canestro e timone puntato verso l’obiettivo principale.
Il girone di ritorno, in realtà, è stato più avaro di soddisfazioni, con diversi scivoloni esterni che avevano fatto temere che alla squadra mancasse qualcosa per poter davvero pensare alla promozione, ma anche la crescita esponenziale di Marco Spissu. E così, allora, alla vigilia dei playoff, raggiunti col secondo posto in classifica, la società è nuovamente intervenuta sul mercato, dotando Ramagli di Stefano Gentile in cabina di regia. Con il ritorno a pieno regime di Klaudio Ndoja, di fatto, si è trattato delle due aggiunte decisive. Agli ottavi c’è stato subito il grande spavento con Casale Monferrato, che ha messo più di tutti in difficoltà le V Nere, vincendo a Bologna gara due e vendendo cara la pelle fino all’ultimo secondo di una gara quattro che ha sancito un 3-1 bolognese molto meno netto di quanto si potrebbe pensare, ma che è servito per far suonare un campanello d’allarme (in mezzo con anche la ventilata ipotesi di esonero per Ramagli). Da quel punto la squadra ha cambiato registro. In mezzo la giornata no all’esordio nei quarti con Roseto, ma poi, in sostanza, la Segafredo è passata sopra a tutti senza pietà: tre vittorie filate per chiudere la serie contro Amoroso & Co, 3-0 a Ravenna e 3-0 a Trieste, con la vittoria in gara 3 su un campo inviolato da ventidue gare, da parte di una squadra che in campionato lontano da Bologna non vinceva mai e che da aprile in poi fuori casa ha avuto un ruolino di 6-0.
Ora la sfida prosegue. Finiti i festeggiamenti in Piazza Maggiore c’è una società che da mesi promette grandi cose per il futuro. Disponibilità economica sembrerebbe essercene, la voci dei diretti interessati dicono di voler rimettere la Virtus, quanto meno, in un contesto europeo e adesso si che l’adrenalina, in una città che di basket vive, mangia e respira, è salita. Qualunque dovesse essere il prosieguo di questa storia, comunque, non dovrà mai essere dimenticato l’incipit. Che porta la firma di persone che hanno creduto in una squadra quando pochi erano disposti a farlo. Che hanno lavorato nell’ombra quando sembrava che davanti ci fossero solo anni di vacche molto magre. Che hanno gestito in maniera perfetta una stagione vissuta decisamente al di sopra delle righe. E che oggi e per molto tempo a venire andranno ringraziate, come sta avvenendo, dai tifosi bianconeri. Perché la Virtus oggi è di nuovo in serie A ma fino a poco tempo fa sembrava un’ipotesi decisamente remota.
Nicolò Fiumi