Correva l’ormai lontano giugno 2015 (vado un po’ a memoria, non sempre le date e le cifre hanno tutto questo gran peso) quando Billy King (si, proprio lui, non Marks!) avviava la fase due dei Brooklyn Nets, annunciando, nell’ambito del processo di rebuilding ormai non procrastinabile, la creazione di una nuova franchigia affiliata da iscrivere alla Lega di sviluppo. Intuitivo il movente: in mancanza di scelte, occorre selezionare e crescere potenziali talenti in casa, permettere loro di farlo nell’ambito della medesima organizzazione, tenere “in caldo” i migliori in vista del grande salto. La proprietà, smentendo, nei fatti, qualsiasi voce di svendita, decideva di investire nel progetto, al punto da programmare la ristrutturazione dello storico impianto del Nassau Coliseum (la mitica arena dei New York Nets!) e di mettere, nel frattempo, a disposizione della neonata nientemeno che l’avveniristico HSS Center di Brooklyn, appena inaugurato. La proprietà crederà, poi, a tal punto nell’investimento, da anticiparne drasticamente i tempi: non i due o tre anni inizialmente immaginati, bensì l’anno successivo, quando il ruolo di ostetrico spetterà al neo-GM Sean Marks, uno venuto dalla D-League e che ha dimostrato fin da subito di credere nelle potenzialità della stessa, con l’acquisto di Sean Kilpatrick, fiore all’occhiello che il neozelandese, appena arrivato, si appunta sulla giacca come medaglia al fiuto. Tutto viene fatto a puntino, Long Island il nome della nuova realtà, con divise che richiamano volutamente ancora quelle degli ormai mitici Nets campioni della ABA! C’è ancora tanto da lavorare sul bacino d’utenza, sul radicamento nel territorio, ma tanto è stato già fatto, invece, sul fronte tecnico e societario, con la creazione di uno staff giovanissimo, tutto nuovo, ma molto dinamico, in testa il coach designato Ronald Nored, neo-ventisettenne (!) già con esperienza da assistente ai Maine Red Claws (scuola Celtics-Brad Stevens, per intenderci), con il dichiarato compito di assemblare un gruppo tutto sommato giovane, incastonandolo nel sistema-Atkinson. A novembre scorso fanno il loro esordio nella NBA Development League i Long Island Nets!
In breve, la prima stagione dei LIN. Questa non è e non può essere una vera cronistoria. La narrazione della lega di sviluppo presuppone la conoscenza delle sue dinamiche, la volatilità dei giocatori, la caducità dei roster, gli schemi sempre pedissequi rispetto a quelli della sorella maggiore, l’ascensore con la NBA, che resta sempre la priorità, il fine ultimo, l’alfa e l’omega della Development League. I LIN vincono la prima partita della loro storia il 12 novembre scorso contro Canton Charge (l’affiliata dei Cavs): basti dire che, degli 11 che hanno visto il campo in quella a suo modo storica gara, cinque non figurano più agli ordini di Nored. Altri hanno attraversato la franchigia lasciando il segno: i Prince (aggregato dagli Hawks), i McGrath (ancora ai vertici delle stats di categoria nella classifica degli assist) o l’attuale PG Quarterman, “parcheggiato” a Long Island dai Blazers… è la loro storia, più che la cronaca della stagione, più ancora della sequela di risultati o delle classifiche, a fare la storia di questa nuova ed azzeccatissima realtà. Che ci parla di uno staff tanto lungimirante e professionale da aver lanciato (purtroppo non a Brooklyn) il rookie del mese di febbraio in NBA, un play undrafted in cui forse non si è avuto la pazienza di credere fino in fondo, che in D-League aveva mostrato numeri e messo insieme cifre ragguardevoli, ma che, nelle apparizioni al piano di sopra, onestamente ben poco aveva lasciato intravedere. Parliamo, ovviamente, di Yogi Ferrell, un vero e proprio “caso” sportivo e mediatico! Varrà di lezione per il futuro.
I Nets “minori” non vivono un granché di stagione: record 14-28, penultimi nella Division e nella Conference di competenza, peggiori per stato di forma attuale (2-8 nelle ultime dieci, striscia negativa di quattro consecutive), non brillano neppure per stats di squadra o individuali, con alcune, del tutto significative, eccezioni: secondi per rimbalzi offensivi catturati (Mokevicious e Burrell sugli scudi), vantano anche la presenza di uno degli attuali starter allo Slam Dunk Contest di categoria (Burrell, appunto). Ma all’ASG c’era anche un certo McCullough… Non male, non proprio tutto da buttare, dunque, per l’affiliata alla sua stagione d’esordio, benché, guardando un certo numero di partite, saltino all’occhio difetti strutturali non da poco. Difesa quanto meno rivedibile, soprattutto sul pick and roll, ma anche sui blocchi, sugli scivolamenti, sui contropiede (davvero arcaica e spesso passiva), negli uno contro uno, a causa di una disarmante lentezza di piedi e di posizionamento di molti giocatori (non tutti). E poi la miriade di palle perse, le basse percentuali dall’arco (non di tutti), le difficoltà contro la difesa schierata…Come dite? In D-League la difesa non esiste? Luogocomunismo spinto: come potrebbero mettersi in vetrina i giocatori se non mostrassero i loro skills anche di fronte al proprio canestro e la capacità di rispondere presente agli schemi mutuati dalla sorella maggiore? Tutto già letto a proposito dei Brooklyn Nets? Certo, né potrebbe essere diversamente: stessi schemi, stessi criteri di selezione dei giocatori (qualcosa andrà rivisto, ma sono tutti alla prima esperienza!)… tutto da leggere nell’ottica delle sliding doors, anche se, dalla prossima stagione, con i nuovi accordi tra NBA e NBPA, la D-League potrà acquisire maggiore dignità professionale e rilevanza tecnica!
L’ascensore. Veniamo al dunque, allora, mordendo il freno su fredda cronaca e dettagli tecnici: se lo scopo delle franchigie affiliate è quello di far maturare virgulti acerbi lanciando i migliori nella Lega, chi sono i papabili di Long Island? Ci limiteremo ai più “pronti”, riservandoci, magari, l’approfondimento sugli altri per un’altra occasione. Ma intanto: quali le caratteristiche per avere una chance? I Brooklyn Nets, al momento in cui scrivo, hanno una rosa composta da soli 13 atleti attivi, causa taglio di Scola e adesione del povero Harris al programma NBA di recupero dai traumi, dunque fuori a tempo indeterminato. Dove sono maggiormente deficitari? Vista la stagione, la risposta sarebbe “ovunque”, ma occorre tener conto dello spazio riservato ai giovani già in rampa di lancio, il cui minutaggio, in un’annata da interpretare come un lunghissimo training camp, non verrà in alcun modo ridotto per far largo a gente nuova. Whitehead avrà, anzi, ancor più spazio da combo-SG, LeVert pare ormai lanciato come starting SF, Hollis-Jefferson da PF tattica, in un ruolo, peraltro, già affollato anche sul pino, tra l’ottimo Trevor Booker, il neo-arrivato Andrew Nicholson, se vogliamo il buon Quincy Acy. Il quale, tuttavia, è stato spesso impiegato da centro nello smallball di Atkinson. Ruolo che vede, alle spalle del veterano Lopez, il solo Hamilton, peraltro dal gioco caratteristicamente molto perimetrale, non certo un intimidatore d’area! E, statisticamente, infatti, alla voce rimbalzi si va spesso sotto… ergo: occhio ai rimbalzisti! Capitolo esterni: imbottiti di combo e di swingmen, latitano tiratori puri. Via Bogdanovic, inoltre, viene a mancare un tassello fondamentale per la motion offense: il giocatore non battezzabile dall’arco, ma capace anche di tagliare in backdoor e scaricare sul lato debole o andare al ferro. Ergo: occhio alle guardie con queste caratteristiche!
Il tutto per completare la rosa nel finale di stagione (in cui, con Lin in campo, finalmente pare ci si voglia togliere qualche soddisfazione anche sul parquet), ma anche e soprattutto per costruire il roster del futuro, che, peraltro, dal prossimo anno si comporrà di 17 posti, due dei quali dichiaratamente riservati a chi sale e scende dalla Lega di sviluppo.
Fuori i nomi! Alla luce di quanto dicono le statistiche, ma soprattutto di quanto visto in campo, ecco le mie proposte per un tentativo al piano di sopra, in ordine crescente di probabilità…
Egidijus Mockevicius (20,7 mpg, 50,5%FG, 7,9 R, 2,8 ROpg, 7,9 ppg). Centrone tradizionale, discreto QI cestistico (come testimoniano i rimbalzi offensivi catturati da uno tutto fuorché atletico!), fisico già formato, mano sufficientemente morbida (nonostante le statistiche dicano il contrario, la meccanica di tiro, ad esempio dalla lunetta, non è malvagia). Opzione possibile, forse futuribile, per chi ha fame di carambole. Ma deve crescere e tanto nella difesa sul P&R, mentre se la cava meglio nella difesa del ferro sul post basso. A suo sfavore giocano la lentezza di piedi e le caratteristiche di gioco in un sistema fatto di movimenti e di apertura dei lunghi, come quello di Atkinson.
Beau Beech (19,3 mpg, 37,1%3P, 7,4 ppg). Teoricamente una guardia, in realtà giocatore estremamente versatile e spiccatamente perimetrale, spesso usato come stretch four. Mano caldissima, mai battezzabile, pesa, a suo discapito, la totale assenza di gioco interno. Lungo com’è, avrebbe dovuto sviluppare maggiormente i sui skills da esterno, per sperare in una chance, ma tempo ce n’è.
Cliff Alexander (27,3 mpg, 60%FG, 37,5%3P, 8 R, 17,5 ppg). Il neoarrivato ha impressionato per atletismo e completezza nel ruolo di PF. Ed ha solo 21 anni! Oltreoceano si è scritto già di sue potenziali convocazioni al piano di sopra. I dubbi ineriscono la taglia (troppo piccolo per i canoni della NBA nel ruolo) ed il sovraffollamento nel suo ruolo: oggi una copia di Trevor Booker. Il potenziale per fare anche meglio del suo sosia sembra esserci, ma va sviluppato, e credo sarebbe meglio farlo giocando…
JJ Moore (25 mpg, 48,4%FG, 3,5 R, 13,7 ppg). Ecco il giocatore che, leggendo le stats, non si filerebbe nessuno: swing (un altro?) dalla produttività modesta (basse percentuali dall’arco). E allora? Allora c’è che è quello fisicamente più pronto e, a mio parere, tatticamente il più interessante e dal potenziale più elevato! Un concentrato di fasci muscolari dotato di buon palleggio, capace di guidare la transizione, saltare a rimbalzo, tagliare in backdoor, effettuare il penetra e scarica per creare come per ricevere (vedrete che crescerà al tiro!), giocare dal post basso e/o finalizzare il più volte visto gioco alto-basso. Inoltre è quello dal potenziale difensivo più elevato, benché troppo spesso se ne dimentichi. Se saprà lavorare soprattutto sul profilo mentale, questo è un self-made man potenziale. Occhio…
Trahson Burrell (30,2 mpg, 35,6%3P, 7,1 R, 3,0 apg, 1,4 bl, 12,8 ppg). Un 3-2 dall’atletismo straripante, dotato di ball-handling e rapidità, estremamente produttivo, capace di creare per sé e per gli altri, brillante a rimbalzo e nei tagli in area, non battezzabile dall’arco…Cosa manca, allora, al più in vista della squadra (dopo la convocazione alla gara delle schiacciate)? Controllo del gioco (tende ad andare fuori giri) e stazza muscolare, soprattutto dalla vita in su.
RJ Hunter (29,2 mpg, 35,2%3P, 7,6 3PA, 3 apg, 17,6 ppg). Via McCullough, il più produttivo dei LIN. Sicuramente di gran lunga il più talentuoso. SG se ce n’è una, già chiamato alla 28 dai Celtics due draft or sono, non è mai riuscito a convincere del tutto. Ma a questi livelli, se in giornata, è un crack! Bando alle stats: è un tiratore puro, ma sa anche, all’occorrenza, attaccare il ferro, guidare un pick and roll, costruire per i compagni. Benché il tiro, dal palleggio o sugli scarichi, resti la specialità della casa. Rivedibile (un po’ come tutti) in difesa e leggerino fisicamente, ha i numeri per rinfoltire il reparto guardie al piano di sopra. E li ha da ora! Del resto, in tempi non sospetti, fui l’unico a dare una piccola cassa di risonanza al suo acquisto…
I Nets credono molto nella D-League e una chance a chi già fa parte dell’organizzazione e si allena quotidianamente con i titolari la daranno di sicuro. Da subito. Scommettiamo?