“La pallacanestro è fatta dai giocatori. Loro sono la parte più importante e soprattutto da loro dipendono gioco e risultati. L’allenatore può dare una buona mano”. E’ la filosofia di Meo Sacchetti, allenatore della squadra di pallacanestro Enel Brindisi, che presenta il suo libro “Il mio basket è di chi lo gioca”, edito da Add, ai microfoni di Radio Cusano Campus, nella trasmissione “Il mattino ha la cultura in bocca”, condotta da Emanuela Valente.
Meo Sacchetti spiega il perché di questa autobiografia, nella quale alterna racconti di momenti privati a quelli vissuti sul campo. A partire dalla sua passione per la pallacanestro che coltiva da quando era bambino e nasce grazie a una pianta di glicine. “Cresceva nel cortile condominiale accanto al muro e aveva un aspetto che assomigliava a un canestro. Io giocavo a calcio ma con il basket è stato subito amore. Ho cominciato a tirare i primi palloni a canestro con una palla da calcio e poi ho continuato all’oratorio. Ma i miei primi canestri li ho fatti a quel glicine”.
Meo Sacchetti racconta la sua infanzia. “Sono nato nell’agosto del 1953, mio padre è morto nel febbraio del 1954. Ho vissuto con mia mamma e i miei fratelli ma, stranamente, non ho mai sentito la mancanza della figura paterna. E nonostante la grave perdita ho avuto una bella infanzia, grazie alla mia famiglia che non mi ha mai fatto mancare l’affetto. Sono stato un bambino felice con il sogno delle Olimpiadi, per fortuna l’ho realizzato”. E’ un insegnamento che trasmette ai suoi ragazzi. Mai smettere di sognare. “Certo i tempi sono cambiati ma ognuno deve avere delle ambizioni, che per me sono di due tipi: l’ambizione di avere più soldi, è un po’ venale ma c’è, e quella di andare a confrontarsi con coloro che sono più forti, per mettersi alla prova”. Non solo, con i suoi ragazzi predica la determinazione. “Gli dico di non farsi buttare giù da qualche giudizio sbagliato o bocciatura da parte di alcuni allenatori ma prenderli come una molla per voler dimostrare il contrario. Bisogna insistere sempre. Un giocatore quando finisce la carriera deve essere in pace con se stesso, senza avere rimpianti”.
Pillole di saggezza che Meo Sacchetti ha lasciato in eredità al figlio Brian, giocatore della Dinamo Sassari, con il quale proprio in Sardegna due anni fa, ha condiviso la conquista dello scudetto. Brian in campo e Meo in panchina. “E’ stato qualcosa di particolare, una grande emozione. Arricchita, quando abbiamo vinto lo scudetto, dalla presenza degli altri figli. Una riunione voluta per vivere insieme quel momento”.
Un cenno, infine, alla Nazionale. A quella nella quale ha giocato, e con la quale ha vinto la medaglia d’argento alle Olimpiadi di Mosca e nel 1983 l’oro agli europei, e alla Nazionale attuale. “Ho avuto la fortuna di partecipare alle Olimpiadi e ho giocato con dei grandi campioni. Ero un bravo operaio ma non una stella, ero un buon atleta che aiutava gli altri a giocare meglio. Non sono mai stato un Meneghin o un Brunamonti”. La Nazionale di pallacanestro di oggi, invece, non ha raggiunto importanti obiettivi, l’ultimo quello di partecipare alle Olimpiadi che si sono disputate la scorsa estate a Rio de Janeiro. Che cosa le manca per fare il salto di qualità? “ Difficile dirlo. Le regole, ad esempio sono cambiate. Quando giocavo io si potevano schierare solo due stranieri in campo e quindi c’era più spazio per gli italiani. Ormai le regole sono fatte, non si torna indietro, e vanno rispettate. I nostri giocatori dovrebbero avere più fame e lavorare molto di più per poter emergere. Devono avere qualcosa in più per scalzare questo sistema”.