La fine di club gestiti da mecenati appassionati pronti a ripianare debiti di tasca propria (almeno finché il giochino non si rompe) è uno deli tanti auspici che sentiamo pronunciare più spesso quando si parla del basket italiano, che sia di vertice oppure no. Lo stesso presidente federale Gianni Petrucci ha più volte auspicato nei suoi interventi che i proprietari gestiscano i propri club come fossero aziende, cercando cioè di non compiere mai il passo più lungo della gamba e trovando il modo di rendere le proprie società economicamente autosufficienti o, quanto meno, capaci di limitare le perdite.
Ma quante strade ci sono per poter raggiungere questo obiettivo? Certamente più di una, così come testimoniato dal caso della Mens Sana Basket Siena, con un’Associazione (‘IotifoMenssana’) che da qualche giorno detiene il 70% del capitale sociale, acquistato da una Polisportiva che si era detta pronta a vendere e liquidare per ripianare consistenti perdite.
È davvero questo il futuro del basket italiano? È dal basso che può arrivare la salvezza dei club, che siano storici o meno? Pur seguendo con interesse quanto accade nella città del Palio, è difficile affermare che un’Associazione di tifosi (o un azionariato popolare o in qualsiasi modo si voglia definire) possa essere la soluzione ai problemi economici che vivono le società italiane di pallacanestro.
Piuttosto che cercare soluzioni per tamponare i problemi, non sarebbe il caso di concentrarsi sulle cause che sono alla base di questi problemi? E se fosse proprio questa la strada per far sparire magicamente le corse contro il tempo e la necessità di affidarsi alla passione (e al portafogli) dei tifosi, spingendo chi i soldi ce li ha per davvero a considerare l’idea di investire nella pallacanestro? Per quale motivo chi oggi dispone di risorse e visibilità dovrebbe uscire da un porto economicamente sicuro e mettersi a navigare nelle acque agitate del basket italiano, senza avere la certezza di un qualsiasi guadagno?
In Italia con la pallacanestro oggi non ci si guadagna, questa è una certezza. La causa non va ricercata in un allineamento ostile dei pianeti e neanche per la manifesta incapacità di chi prova a farlo, un fattore che esiste eccome, ma non è la regola. Piuttosto, il problema è che ci si muove in un quadro di incertezza assoluta, frutto di scelte (o mancate scelte) fatte da chi il basket è chiamato a gestirlo, a tutti i livelli: Federazione, Legabasket, singoli club.
Curare il proprio orticello è più facile che cercare di far fiorire un giardino in cui anche altri hanno diritto di passare. Cercare di tamponare le singole falle che si aprono quotidianamente è più facile che dar vita a un progetto completo di ristrutturazione, che presuppone capacità, investimenti, pazienza e, soprattutto, una visione del futuro che evidentemente appartiene solo a pochi. E quei pochi faticano a progettare e programmare in un quadro che muta in continuazione, senza dare alcuna certezza su quello che sarà il domani.
“Il basket italiano vive un’aria di riformismo perenne, in cui ognuno è convinto di avere la ricetta giusta”: quante volte abbiamo ascoltato il presidente Petrucci fare questa affermazione? E come si combatte un’aria di riformismo perenne se non con un immobilismo perenne? Troppi soggetti sono chiamati a dire la propria, troppe teste vengono chiamate a partorire un’idea, troppi i passaggi prima che si realizzi.
In fin dei conti, anche la recente diatriba tra FIBA-FIP ed Eurolega rischia di essere l’ennesima occasione persa per ragionare a 360° sulla direzione che dovrebbe imboccare la pallacanestro italiana, che invece di interrogarsi sui motivi che hanno generato un profondo gap con gli altri Paesi (la crisi economica è un alibi che non regge più) resta ancorata al clima del ‘tutti contro tutti’. Un clima che piace a molti di coloro che vivono sotto il proprio Campanile, attenti cioè solo ed esclusivamente a ciò che li riguarda direttamente, ai propri interessi, a quanto accade nel breve perimetro che li circonda.
L’Associazione di tifosi è la strada per salvare un club in difficoltà? Ben venga l’Associazione di tifosi. Ma questa soluzione non potrà mai essere quella decisiva per garantirgli competitività a tutti i livelli, un futuro stabile, un progetto a lungo termine. La passione dei tifosi smuove le montagne, ma solo la certezza di un reale guadagno permetterebbe a seri imprenditori di intervenire, di costruire grandi squadre, di pianificare la nascita di seri e floridi settori giovanili, di riaccendere la passione di intere città. I tifosi facciano i tifosi, magari facendo salire di uno o più gradini la propria cultura sportiva. Le Istituzioni compiano il proprio dovere, quello di rendere fertile il terreno sul quale seri investimenti potranno portare frutti importanti. E forse il basket italiano potrà vivere un periodo meno incerto e oscuro di quello che sta vivendo da troppe stagioni.
Alessandro Pediconi