Ci avviamo verso il prossimo turno a grandi passi, con una serie molto combattuta tra SanAntonio e Golden State, mentre le altre 3 (a meno di colpi di coda nel finale) non hanno riservato grosse sorprese.
NY – IND: 1 -3. Brutta serie. Pacers onesti, in alcuni momenti perfino buoni, ma la loro valutazione è viziata dalla totale inconsistenza dei loro avversari. Ad eccezione di un sussulto da campione di Melo, che raddrizza nel finale gara 2, per il resto NY conferma i suoi bassi standard di gioco da Playoffs. E senza nemmeno bisogno di “disgrazia” Stoudamire, che si limita a brevi cameo abbastanza ininfluenti. La verità è che il gioco dei Knicks è completamente scomparso. Woodson, confermando i sospetti da me esposti nel pezzo precedente, finalmente getta la maschera e si riconferma uno dei peggiori allenatori su piazza. Essendo stato il motivo fondante del successo di NY in stagione regolare l’andare col quintetto piccolo, con Anthony da 4 tattico, per la decisiva gara 4 il nostro decide di riesumare Kenyone Martin, riportando Melo nella sua posizione (in)naturale di 3. Il tiro da 3, marchio di fabbrica e chiave per aprire le difese scende qualitativamente (certo, attaccando male!) ma anche quantitativamente, tanto che i Pacers li superano nettamente per numero di triple. E’ un po’ come se Chicago venisse sconfitta da Golden State perchè i Warriors difendono meglio di loro: un allenatore minimamente capace non dovrebbe permetterlo…
E chiudiamo con l’ultima chicca del buon Woodson che, visto che l’unica cosa che ha realtmente funzionato in questa serie per i suoi è stato Pablo Prigioni, che soprattutto in gara 2 ha aperto la scatola, segnato da tre e fatto giocare con un minimo di armonia e ritmo i suoi, per gara 4 decide di utilizzarlo solo per 3 minuti, togliendolo dal quintetto per sostituirlo come detto con YellowKid, notoriamente gran tiratore dalla lunga e capace di illuminare i compagni con le sue letture. Tutto il resto è noia, brutto gioco, cattiva difesa e pessimo attacco. E’ Kidd che passa da starter e motore della squadra a panchinaro a basso minutaggio, incapace di mettere a referto un singolo punto nelle ultime 8 gare. Sono Melo e Smith che mostrano la stessa selezione di tiro di Antoine Walker ubriaco, però su un numero di possessi tale da rendere la situazione irrecuperabile. L’unico Knick a salvarsi, guardando complessivamente le 4 partite, è l’insospettabile Raymond Felton. Mandato a svernare in Colorado per arrivare a Anthony, viene rispedito al mittente come merce avariata, salvo poi rivelarsi uno dei play più continui e affidabili della lega; non è uno che ti vince una partita, ma ti garantisce sera dopo sera una quindicina di punti con buone percentuali, e buon mix tra entrate e tiri da fuori, e una decorosa qualità di regia. Pare banale, ma è molto meglio di quanto abbia mostrato qualunque compagno.
I Pacers sinceramente non impressionano. In ogni partita c’è un uomo diverso che decide di infierire sul cadavere dei bluarancio, segno che non c’è un vero e proprio piano tattico per colpire i Knicks dove tatticamente hanno un mismatch, ma si improvvisa e si vede chi è caldo quella sera. Contro gli Hawks e questi Knicks è più che sufficiente; contro Miami non necessariamente.
SAS – GSW: 3 – 2. Cuore Gialloblu.
Non è una bella cosa salire sul carro dei vincitori. Anche perchè, tecnicamente, non lo sono. La mia unica difesa consiste nel proclamare la mia ignoranza: non sapevo che Curry fosse questo. Ma lo sapeva qualcuno? Mi sono cestisticamente innamorato di questo giocatore, che a dispetto di un fisico modesto, e pure malridotto, riesce ad essere un’attaccante bello da vedere, emozionante e pure soprendentemente efficiente. E ovviamente il tutto soprattutto quando conta. Per non parlare delle capacità di playmaking. In quanto a letture del gioco e capacità tecniche di passaggio, non siamo molto indietro rispetto a Chris Paul: certo, il ballhandling è molto inferiore (e vorrei pure vedere!), e di conseguenza gli è più difficile battere l’uomo ai fini di effettuare il passaggio (mentre batterlo per segnare gli riesce benino…), ma parliamo comunque di un regista da podio NBA. Ma ridurre Golden State a Curry sarebbe sbagliato. Il lavoro fatto dal reverendo sulla psiche del gruppo è da standing ovation, ma anche qui c’è dell’altro. Jack ha trovato a GS la sua dimensione, riducendo i minuti e le responsabilità in playmaking, e affermandosi invece come realizzatore in proprio, esperto di circus shot e nel creare attacco senza bisogno di niente quando la squadra ha bisogno di punti. E poi i ragazzini terribili. Klay Thompson è semplicemente un trattato di basket: movimenti senza palla e dietro ai blocchi, catch and shoot, arresto e tiro dal palleggio, perfino qualche penetrazione. Il tutto ovviamente dopo non essersi riposato molto in difesa, visto che gli tocca normalmente Parker. Ma soprattutto Harrison Barnes: primo anno, swingman tra il 3 e il 4, difende come un ossesso su almeno 3 posizioni, e in attacco fa veramente qualsiasi cosa: tira da 3 in maniera competente, penetra, schiaccia, taglia, si prende anche i tiri nei momenti che contano e li segna tutti. Aggiungiamo anche il fatto che nelle ultime due gare, vista la scarsa vena al tiro di Thompson e la condizione di azzeramento fisico di Curry, si è anche improvvisato go to guy e realizzatore di volumi, e abbiamo il quadro di un furto perpetrato alla settima chiamata dello scorso draft: se la votazione del Rookie of the Year si svolgesse oggi, qualcuno avrebbe qualche dubbio nel dargli quanto meno il secondo posto?
Su SanAntonio c’è poco altro da dire: a differenza di Denver sono una squadra forte mentalmente, e quindi riescono a resistere alla mareggiata gialla che arriva puntuale nel terzo (a volte quarto) quarto. La differenza di potenziale tra le 2 squadre, che sembrava onestamente incolmabile prima del tip off, oggi appare decisamente limitata. Alla fine tutto sembra ridursi a: dati per scontati un buon Duncan, un discreto Ginobili e una stratosferica prestazione di almeno uno dei due esterni dei Warriors, la vera differenza la fa il tiro da fuori del francese: nelle serate in cui entra, SanAntonio vince; quando non la mette, i Warriors se la giocano. Serie che potrebbe andare alla settima, di cui onestamente non si potrebbe prevedere il vincitore.
OKC – MEM: 1 – 4.
Serie senza grosse sorprese, ma solo conferme. Onestamente se una squadra si basa sulle invenzioni in isolamento di due straordinari solisti, e al limite sui tiri piazzati generati per gli altri sui raddoppi a questi due, togliendo una delle 2 star non può esserci che un risultato: la sconfitta. Non ostante questa mancanza di suspance, la serie è stata tutt’altro che brutta da vedere: le partite sono andate quasi tutte fino agli ultimi possessi, Durant ha giocato una serie ben oltre le possibilità umane, prendendo rimbalzi, gestendo la palla, creando tiri per i compagni, giocando sempre quasi tutti e 48 i minuti, e in aggiunta a tutto questo segnando il suo trentello con percentuali più che dignitose. Il tutto contro una delle migliori difese della lega, che sostanzialmente doveva e poteva concentrarsi solo su di lui. Ha mostrato segni di umano affaticamento solo in gara 5, quando Memphis gli ha definitivamente preso le misure, facendo sparire la sua precisione dal campo. Ovviamente faceva tutto questo generando anche highlights a profusione. Si sa, anche l’occhio vuole la sua parte. Meglio di così non si poteva proprio fare. Una conferma, ma è sempre un piacere. Per gli amanti del bel gioco, inteso come gioco di squadra, fondamentali, schemi, aspetti tecnici, sia in attacco che in difesa, Memphis ha invece gentilmente offerto un clinic, dimostrando a tutti che, A PATTO DI AVERE Z-BO e GASOL, il basket tecnico degli anni 80 è tutt’altro che morto, ed anzi è ancora piuttosto vincente. Si conferma tristemente anche la pochezza di Brooks, senz’altro per la gestione incolore dei PO, ma anche per il lavoro non fatto prima in regular season di costruzione di un qualche sistema di gioco per questi Thunder. Sembra che il playbook gli sia stato passato dal grandissimo Del Negro: trattasi del consueto pizzino con scritto “palla a Paul e ci pensa lui”. Brooks, dimostrando grande acume tattico e conoscenza del gioco è riuscito (tutto da solo!) a sostituire “Paul” con “Durant”, e affidare le preziose indicazioni alla sua squadra.
Salutiamo con piacere il ritorno di Randolph ai livelli di 2 anni fa, fa bene agli occhi e allo spirito. Salutiamo anche la consacrazione di Mike Conley: non stiamo parlando della reincarnazione di Nash, il meglio lo dà senz’altro quando deve realizzare in proprio, sia col tiro da 3 che in penetrazione, anche quando la palla scotta. La sua costruzione di gioco però, per quanto scolastica, è pulita, efficace, essenziale. Insomma, quello che basta per una squadra che comunque ha nei due lunghi un forte centro di smistamento palloni e creazione di gioco.
Fa infine piacere vedere come gli Orsi abbiano affrontato la serie con maturità: ben consapevoli di essere più forti, hanno giocato con equilibrio e tranquillità, senza farsi prendere dal panico anche di fronte alle imprese di Durant, o alle sfuriate offensive di Fisher in gara 2, o ai momentanei black out del loro attacco. Una squadra matura, con una chimica perfetta, gran sicurezza nei propri mezzi e, guardando soprattutto alla serie giocata da Miami (ma ne parliamo dopo) anche il legittimo sospetto che forse il pronostico non sia chiuso come poteva sembrare un mese fa. Il tutto Spurs (o Warriors!) permettendo.
MIA – CHI: 4 – 1.
E’ finita. Raramente si è vista una squadra perdere 4 a 1 e fare così bella figura. La stagione di Chicago era era cominciata sotto pessimi auspici, con Rose fuori a tempo imprecisato, e la dirigenza che in estate aveva giocato al risparmio, dando via l’intera panchina. I più acuti (io per esempio) l’avevano prontamente pronosticata ad una stagione di tanking. E invece no. Classificazione ai PlayOffs col quinto record, e l’inizio di una serie contro i Nets in cui non erano attesi a grandi cose. E le hanno fatte. Poi la vittoria in gara uno in casa degli Heat, giocando di fatto con la squadra delle riserve, però tutta tartassata dagli infortuni. Le 3 gare successive sono un crescendo di aggressività fisica, nella speranza che gli Heat cedano mentalmente di fronte alle aggressioni (anche in senso letterale, vedi Mohamed su James). Ma gli Heat danno buona prova di sè, tengono i nervi saldi, non si fanno tirare dentro nelle risse e svolgono il loro compito. Gara 5 a Miami comincia nel peggiore dei modi per i Tori, con Miami che difende, fa contropiede e gira la palla, arrivando a un vantaggio vicino ai venti punti, complici anche dei Bulls che appaiono apatici. Robinson, dopo una gara 4 da 0 su 12 per 0 punti, appare nervoso, e dopo pochi minuti ha già due falli e deve uscire. QUALUNQUE squadra in queste condizioni avrebbe mollato. Non questi Bulls. L’eroe di giornata è il più inaspettato, Boozer cuor di leone, che colpisce ripetutamente la difesa sottodimensionata di Miami dove gli fa più male, ovvero al ferro. Poi Hamilton, dimenticato in fondo alla panchina di Thibs, torna in campo, e sembra di essere ancora nel 2004. Infine si aggiunge anche Nate, con tutto il campionario della festa di triple da 10 metri e entrate fuori equilibrio contro gente molto più alta (cioè tutti). I Bulls vanno avanti anche di 10 punti, e bisogna aspettare il quarto quarto per una reazione in casa Heat. Alla fine prima Robinson, poi Hamilton prendono e sbagliano il tiro per l’overtime, e questa gloriosa formazione dei Bulls può concedersi un meritato riposo, tra dubbi e certezze.
La certezza più positiva è sicuramente Jimmy Butler, da Marquette (da questa università non ne mandano tanti al piano di sopra, ma quelli che mandano tendono a essere buoni!). Difesa asfissiante, ma anche attacco, tecnica, e soprattutto cuore: anche in questa gara 5 (dopo 2 settimane che sostanzialmente non si siede mai durante una partita) mette una serie di canestri eccezionali, tra cui facciamo notare due fadeaway in faccia a Wade. Probabile che quest’estate i Bulls provino a liberarsi di Deng, protetto di Thibodeau perchè essenziale per le sue rotazioni, ma drammaticamente caro e non sempre inappuntabile quando conta: forse ora si può pensare a privarsene, se arrivasse l’offerta giusta. Dubbi invece su cosa fare del backcourt titolare dei PO, Belinelli e Robinson: entrambi free agent nell’estate, sicuramente vorranno monetizzare una stagione infinitamente al di sopra di ogni aspettativa, e non è detto che Chicago voglia e possa trattenerli entrambi. E finiamo con Derrick “All In” Rose: in che modo può tornare in quello spogliatoio il prossimo anno? Gli conviene sperare di essere in una forma strepitosa e che Thib dia il suo meglio, perchè sul piano psicologico reinserirlo in questo gruppo dopo le storiacce di questo maggio non sarà facile.
Chiudo con un pensiero anche sugli Heat. Diciamolo piano, ma siamo sicuri che siano da titolo? Nel confronto con i Thunder, per molti versi simili a loro un anno fa, ovvero un gruppo di 3 stelle non inserite in nessun sistema di gioco, si vede come l’insospettabile Spoelstra abbia invece fatto un ottimo lavoro, dotando i suoi di schemi offensivi e difensivi di livello, di aver dato un ruolo organico e chiaro a ogni comprimario, e trovato un equilibrio fra le stelle. Viene però anche da dire, dopo gara 5, che Wade sembra fuori fisicamente, quasi quanto Westbrook, e che LeBron sia rimasto un po’ solo. Diciamoci la verità, nel finale della gara sembrava di essere tornati indietro di 2 anni, con LeBron a forzare senza costrutto da 3 o a scornarsi in mezzo all’area, e alla fine la necessità per vincere la gara di richiamare il numero di Zio Dwyane, che con due runner, un tap in schiacciato, una stoppata e due rimbalzi in attacco in old style Wade permette ai suoi di vincere (un po’ come lo scorso anno a metà della serie contro Indiana: quando gli Heat sono in reale difficoltà, c’è un nome solo che possono chiamare). E’ evidente che Wade non può essere questo per più di 2 – 3 minuti, per evidenti limiti fisici. Questo può bastare contro una comunque limitata Chicago. Può bastare probabilmente anche contro Indiana, ma è sufficiente in finale? Un ottimo e solitario Durant ha dimostrato (se ancora ce ne fosse bisogno) che un giocatore, per quanto oltre il limite della perfezione, non è sufficiente a vincere una serie di alto livello: LeBron può veramente fare qualcosa di diverso? In più, come detto, ha una squadra più organizzata e qualche buon minuto a gettone di Wade: in un’NBA col talento sempre più parcellizzato è tanta roba, ma siamo ancora tutti sicuri che sia sufficiente per vincere un anello?
Vae Victis