Lo so. Da buon tifoso Celtics sono alcuni mesi che vi frantumo gli attributi elogiando l’impresa storica dei gladiatori biancoverdi, che hanno reagito in maniera spettacolare alla perdita del loro miglior giocatore, e continuano a restare in zona playoffs a dispetto di una quantità di talento a disposizione limitata, dell’elevata età del nucleo portante e di una quantità di sfiga da piaghe d’egitto.
Ed effettivamente c’è di che stupirsi. Per obiettività però occorre anche dare un occhio a cosa succede lì vicino, in quel di Chicago, dove in condizioni comparabili i risultati sono perfino migliori (2 partite vinte in più e 3 perse in meno).
Una doverosa premessa
Certo, già che siamo in vena di redde rationem, sarebbero da citare anche quelli della Georgia: se per Boston si può parlare di impresa, per Chicago di Miracolo, per Atlanta il vocabolario non ci assiste più.
Nell’estate come noto Danny Ferry ha fatto le pulizie di primavera e si è liberato di una fila di giocatori non decisivi e spesso con contratti proibitivi, così che in 2 mesi hanno lasciato la città della Coca Cola Joe Johnson, Marvin Williams, Jamal Crawford (che malissimo a LA non sta facendo) e Kirk Hinrich, in cambio sostanzialmente di Devin Harris. La squadra così si poggia su Jeff Teague, autore di una stagione stupefacente, ma non titolare di un talento strabordante, Al Horford, centro abbondantemente sottodimensionato anche se con fondamentali e cuore di primo livello, e come stella della squadra Josh Smith. Sì, proprio quello che si contende con TMC il primato di “sembro finito qui per sbaglio”, famoso per un approccio ondivago alle partite e per essere un equivoco tra i 2 ruoli di ala, senza i centrimetri e i movimenti per giocare sotto, e senza il tiro da 3 per giocare fuori. Il tutto ovviamente condito dal fatto di essere nel contract year che, se da un lato vuol dire garantirsi un livello di impegno sopra la (bassa) media, dall’altro implica una stagione piena di distrazioni legate alle voci di mercato. Come questo cocktail esplosivo (in accezione prevalentemente negativa…) abbia prodotto un quinto posto ad est in un anno in cui tutti li pronosticavano in tanking dichiarato, non è dato sapere.
Non avendo quindi spiegazioni intelligenti da fornire, mi limito per dovere di cronaca a segnalare la cosa: semplicemente di un altro mondo.
Il paragone possibile
Ma torniamo in Illinois per parlare dei sorprendenti Bulls. Come dicevo, la situazione di roster mi sembra ampiamente paragonabile con quella dei Celtics.
I due All Stars, Noah e Deng, sono comparabili con Pierce e Garnett. Certo, le carriere non sono confrontabili, e anche oggi, su 15 minuti, continuo abbondantemente a preferire i due biancoverdi. Ma siccome una partita dura 48 minuti, il paragone diventa praticabile. Il Capitano e il Bigliettone, avendo ogni sera nelle gambe un massimo di 15 minuti di buon basket, si amministrano, e fanno da spettatori per i restanti 15 minuti in cui devono stare in campo. I due Bulls invece, nel pieno del loro vigore fisico, sono fra i giocatori più utilizzati della lega, con 39 e 37 minuti a gara, tutti di grandissimo impegno e presenza. Poi c’è il terzo uomo, magari non così affidabile ogni sera, ma che può farti la differenza nelle sere sì: Boozer (su un solo lato del campo) a Chicago e Green a Boston. Si continua con l’uomo squadra, quello che difende, passa, non pretende troppi palloni, fa da collante e si sacrifica: Hinrich e Bradley.
E poi l’arma tattica, che entra dalla panca per portare punti e sregolatezza: Terry per Beantown, e la coppia Robinson/Belinelli per i Tori. Entrambe le squadre hanno dovuto fare a meno per infortunio di un giocatore di rotazione importante, magari non determinante, ma che il suo lo faceva ogni sera: Hamilton e Sullinger. E infine, entrambe sono state private del loro miglior giocatore, playmaker, regista, anima della squadra, Rose e Rondo.
Stili diversi, stesso risultato
Le premesse quindi sono molto simili. Il modo in cui le due squadre vincono le partite invece è molto diverso. Boston, dovendo seguire i ritmi e le possibilità fisiche dei suoi due leaders, temporeggia cercando di non essere troppo sotto a metà dell’ultimo quarto, poi Garnett alza il livello difensivo e Pierce guida un attacco disperato basato su esperienza, freddezza e numeri da circo.
Chicago invece è più metodica. Non ha giocatori alla Pierce che possano garantire di andare a punti per 4-5 azioni consecutive. Noah è un illetterato del gioco, e Deng è più un finalizzatore (sugli scarichi o in taglio) che un creatore di gioco (per sè o per altri). Di conseguenza è difficile realizzare grandi rimonte. L’attacco è scadente, appena il 24esimo come punti su cento possessi, e con percentuali non indimenticabili. Le responsabilità sono condivise, a parte Hinrich (alla stratosferica cifra di 5) nessun Bull fa più di 3 assist a partita, eppure sono i quarti nella lega in questa categoria. L’attacco quindi si basa, a parte le improvvisazioni al sax di Nate the Great, sulla ferrea esecuzione dei giochi: nessun interprete indimenticabile, ma il fatto di essere tutti sempre sulla stessa pagina, e di aver “comprato” il sistema permette di raggranellare una cifra almeno decorosa di punti.
Non potendo vincere le partite in attacco, i Tori si concentrano necessariamente sulla difesa. Anche qui il livello medio dei giocatori non è altissimo, perchè al di fuori di autentiche star come Noah, Deng e in parte Hinrich (con i limiti di un fisico ormai non più così integro), gli altri sono tra il medio e il sospetto. In alcuni casi (Boozer?) addirittura il disperato. Eppure vedi che anche giocatori come Carlos Looser e Belinelli riescono a sembrare decorosi in questo sistema. Certo, nessuno dei due sarà mai eletto difensore dell’anno, ma rispetto a loro edizioni precedenti, si può dire che il loro risultato sia più che buono. Sempre su 100 possessi, i Bulls sono quarti nella lega per punti concessi agli avversari, e settimi per percentuale concessa. Il tutto è completato da un ottimo secondo posto a rimbalzo. Sulle statistiche di “voglia” sono imbattibili.
La soluzione del mistero
Non è difficile, ha un nome e un cognome, Tom Thibodeau. La mia personalissima preferenza per il Coach of the Year. Certo, visto come giocano i Knicks saresti obbligato a considerare Woodson, ma l’impressione che la stagione di NY abbia molto a che fare con sinistri allineamenti di pianeti è troppo forte. E poi in fondo lui è sempre Mike Woodson, e il premio di COY rischierebbe di esplodere nelle sue mani. E poi c’è il Pop, l’allenatore reazionario, ortodosso e conservatore per definizione. Eppure in 10 anni ha fatto un giro di 180° nel suo modo di allenare e di far giocare la squadra. Ovviamente essendo al top sia ad un estremo che all’altro dello spettro.
Per Thibodeau però forse la sfida era ancora più impegnativa. Sulla conoscenza tecnica del gioco, la lettura delle situazioni, la preparazione dei suoi, il livello degli schemi adottati credo che nessuno possa discutere del fatto che siamo al primo posto nella lega. E pure con un certo distacco. La parte di adeguamento in corsa, specie all’interno di una serie non è ancora il suo punto di forza, forse serve più esperienza, ma senz’altro lo scorso anno ha deluso; quest’anno vedremo. Quello che però mi ha sinceramente stupito è stata la capacità di entrare nella testa dei giocatori e convincerli a accettare il Sistema, degna dei più grandi allenatori della storia del gioco. A SanAntonio tutti i giocatori osservano rigorosamente il Sistema Spurs; ma lì non c’è alternativa, l’ambiente, la società sono tutti lì a spalleggiare il coach, e il caso di un giocatore che non accetti il Sistema non è dato: se non ci credi sei già altrove.
Quest’anno Thib ha dimostrato di poter essere paragonato a Larry Brown, Rivers, persino Jackson per la capacità di convincere i suoi giocatori. E del resto il suo compito era improbo: una stagione iniziata senza la sua stella, senza sapere se sarebbe tornata, quando, e in che condizioni fisiche. E non parliamo di un giocatore solo importante, ma del motore dei Bulls. Larry Brown, il mio personale mostro sacro della panchina, ha portato una squadra con Iverson e un po’ di gente raccattata qua e là (e per altro in precarie condizioni fisiche) in finale NBA, a giocarsela contro i Lakers di Kobe e Shaq al top della loro forma. E’ stato un risultato incredibile, ma non sono sicuro che senza Iverson Brown sarebbe riuscito a portare quel gruppo ai PlayOffs. E il rapporto di dipendenza di quei Sixers da AI è l’unico che mi verrebbe in mente di paragonare a quello tra D-Rose e i Bulls. Quest’anno i Bulls erano attesi al tanking più sfrenato, ipotesi per altro non priva di senso, visto che ormai appare quasi sicuro che Rose non tornerà in questa stagione. Una buona scelta di lotteria, unita al ritorno del loro leader, avrebbe reso i Bulls edizione 2013/2014 una delle legittime pretendenti alla finale ad est. La proprietà aveva anche dato chiare indicazioni in questo senso, quando nell’estate ha letteralmente svuotato la panchina del coach per risparmiare un pò di soldi. Thibodeau, a cui il tanking sta come l’umiltà a Kobe Bryant, invece ha scelto di giocare, e ha convinto i suoi. Per i primi mesi a giocare (per altro un basket del tutto nuovo, vista la mancanza IN TOTO della fonte dell’attacco dell’anno scorso) e tener duro per un periodo non così breve, nell’attesa che arrivasse poi il numero 1 a risolvere. Poi, capolavoro assoluto, è riuscito a far assorbire positivamente la notizia che Rose non sarebbe tornato: sarebbe stato facile a quel punto darla su, mentre i Bulls non hanno ceduto un centimetro, e hanno continuato col loro ruolino di marcia.
Onore a questi Bulls, un miracolo contemporaneo
Vae Victis