Terminano, e pure in maniera abbastanza ignominiosa, le due strisce più lunghe di questa stagione.
Denver Nuggets
Dopo 15 vittorie consecutive i Nuggets cadono nettamente sul campo degli Hornets (o come si chiameranno tra poco: Pelicans (!?)). Non un avversario temibilissimo, secondo peggior record a ovest e squadra i cui principali punti di forza sono il sorprendente (non tanto in senso assoluto, quanto nel senso che nessuno si aspettava potesse essere più di un role player nell’NBA) Vasquez, il separato in casa e sempre rotto Eric Gordon, e il supposto (ma di certo non incoronando) rookie of the year Anthony Davis. Tra l’altro i primi due non hanno nemmeno giocato quella sera, e il principale carnefice delle pepite è stato un insospettabile Ryan Anderson.
La notte successiva concedono il bis perdendo di un punto nell’inospitale casa degli Spurs.
Resta comunque il ricordo di un impresa significativa, la più lunga striscia di vittorie di Denver da quando sono nell’NBA, e soprattutto l’impressione di squadra sicura e forse pronta per fare lo step successivo. Non parlo certo di titolo NBA, ma non si può negare che i Nuggets abbiano fatto vedere un gran bel basket. Protagonisti un po’ tutti i loro giocatori (come da copione, in una squadra senza stelle in cui il collettivo conta più del singolo), ognuno dei quali pare aver salito un gradino.
Il più sorprendente è senz’altro Ty Lawson, play che ancora oggi eccita il giusto in fase di costruzione di gioco, ma che sembra aver definitivamente superato i problemi di inizio anno, quando la dirigenza sudava freddo vedendo il rendimento in calo di un giocatore cui aveva appena rinnovato il contratto a cifre molto importanti. Il suo apporto è cresciuto soprattutto in fase realizzativa, dove ha aumentato il suo range di tiro e soprattutto la sicurezza con cui prende le triple, oltre ad aver riscoperto la gioia della penetrazione a canestro, andando più frequentemente a finire al ferro in entrata sfruttando la notevole velocità e la capacità di resistere ai contatti. Meglio anche la capacità di gestirsi quando la palla scotta, tanto che coach Karl non è più costretto a panchinarlo in favore di Miller quando la partita si decide. Non che l’eterno Miller debba guardare da seduto i finali di gara: l’ex Cleveland è spesso in campo insieme a Lawson, garantendo freddezza, playmaking e (pare buffo dirlo per un giocatore di questa altezza) punti dal post basso.
Il Gallo continua nel suo processo di avvicinamento al ruolo di All Star, è stato stratosferico e si è caricato la squadra sulle spalle all’inizio della striscia vincente, poi si è mantenuto su livelli comunque buoni, ma ha lasciato spazio all’emergere dei compagni (soprattutto Chandler) nella parte finale della striscia.
Proprio Chandler, dopo un lungo e faticoso periodo di reinserimento dopo la parentesi cinese, sembra finalmente tornato il giocatore di 2 anni fa, con un ruolo di sesto uomo di energia, che entra e cambia ritmo alla partita grazie alla notevole efficenza offensiva.
Bene anche Manimal, al secolo Kenneth Faried, che pur non baciato dal dono della conoscenza dei fondamentali, mette sul tavolo una tale quantità di energia da renderlo pedina fondamentale di questi Nuggets: non c’è rimbalzo o palla vagante, in attacco o difesa, su cui non si avventi come un falco, senza contare il festival degli alleyhoop che, su provocazione di Miller, converte in gran quantità, insieme a Javalone McGee. Proprio il centro ex Washington, il deficiente prodigio, sembra aver trovato sulle montagne il suo abitat naturale. Fatto partire dalla panca, con un minutaggio limitato, riesce a gestire la sua limitata intelligenza cestistica e si può sbizzarrire in schiacciate, stoppate e intimidazione.
Squadra da regular season come poche, tra 2 settimane ci dovranno dimostrare di essere pronti anche per la post season. Io sinceramente credo che possano far bene, e che Gallinari ci farà dimenticare a suon di giocate importanti l’imbarazzante gara 7 persa coi Lakers lo scorso anno.
Miami Heat
Si ferma a 27 la striscia degli Heat. Dopo aver superato sul difficile campo di Boston (vittoria di 2 punti grazie all’ormai consueto miracolo nel finale di James) il record dei Rockets del 2008 (22 vittorie consecutive), Miami è costretta a fermarsi quando ormai cominciava a vedere lo striscione d’arrivo delle 33 vittorie ottenute dai Lakers nel 72. Avevano già rischiato parecchio con squadre non indimenticabili come Phila, Cleveland e perfino Orlando, ma alla fine sono stati sconfitti dai Bulls, e per di più in una versione che definire “rimaneggiata” sarebbe riduttivo. Oltre al lungo degente Rose, mancavano Noah, Belinelli e Hamilton. Mattatori di serata un sorprendente Deng, ma anche Boozer (?!), Butler e Robinson.
Lato Miami invece tutti presenti, non ostante un Wade non ancora al 100% della forma fisica, che mi auguro che ora, terminata la streak fever, venga tenuto a riposo in ottica PO.
Gli Heat si comportano come sempre, giogioneggiano per buona parte della gara, ritenendosi in grado di recuperare e vincere nell’ultimo quarto. Non ci vanno nemmeno troppo lontati, ma si trovano costretti a fermarsi a -4. Sia chiaro, di motivi per ritenerlo possibile ce n’erano parecchi, se non altro l’esperienza fatta nell’ultimo delirante mese. E bisogna anche ricordare che se ti dai un obiettivo così ambizioso, soprattutto in termini di durata nel tempo, la necessità di amministrare le energie fisiche e mentali è evidente.
Fondamentalmente, chi se ne frega. Sono comunque al secondo posto nella storia, e possono adesso riposarsi, guarire e prepararsi per il vero obiettivo stagionale, ovvero il repeat.
Da verificare le condizioni di Chalmers, infortunatosi nel corso della gara.
Anche in questo caso, il lascito di questa striscia è soprattutto l’impressione di una squadra finalmente matura e completamente conscia dei propri mezzi, capace di amministrarsi e accendersi a comando, e di concludere le partite come nessuna nell’NBA. Letteralmente.
Se si fa la proiezione su 100 possessi di quanto realizzato dagli Heat negli ultimi 5 minuti delle partite, si parla di circa 120 punti, cifra che li colloca nell’olimpo dell’NBA, anche se senza grosso distacco dalle altre top franchises. Quello che invece li rende unici è la capacità di difendere in quelle situazioni: sempre su 100 possessi negli ultimi 5 minuti di gara solo 88 punti concessi: nessuna altra squadra ci va nemmeno vicina. Miami a un certo punto inizia a difendere, e ti strangola regolarmente, permettendosi così di recuperare anche margini importanti (-27 con i Cavs) e vincere le partite senza spendere troppo energie.
Diciamoci la verità: quando vedi Boston vincere di uno o due punti contro squadre infime sudandosi ogni maledetto punto pensi che ti piacerebbe vederli vincere, perchè se lo meritano: ma sai che non c’è nessuna reale possibilità. New York, ultimamente in ripresa, pare comunque troppo alterna, legata alle percentuali da 3 agli infortuni (non impossibili in una squadra di ottuagenari); SanAntonio, pur se apparentemente (e insensatamente) più forte che negli ultimi 3-4 anni, è ormai guardata con giusto sospetto per le partite di aprile e maggio. Memphis è una simpatica alternativa romantica, ma gli mancano troppe cose (tra cui un penetratore e dei tiratori da 3) per poter realmente ambire al titolo. I Lakers, arrivati arrancando in zona PO, sono una mina vagante, ma sinceramente non ci scommetterei un euro. E infine i Thunder, la più credibile alternativa agli Heat, con un Durant stratosferico e un nuovo equilibrio interno apparentemente raggiunto dopo la dipartita del Barba. Ma messi a fianco agli Heat, sinceramente non mi sembrano poter reggere il confronto.
Nell’NBA di oggi, con tutti i vincoli del cap e la dispersione di talento dovuta ad un numero insensato di franchigie, non è più possibile costruire la squadra perfetta. Alla fine quindi vince chi ha in casa i migliori strumenti per provare a venire fuori dai momenti di difficoltà e superare i propri limiti. E da questo punto di vista, chi sta meglio di Miami, con Wade (che sembra finalmente recuperato) e soprattutto King James?
Vae Victis