Giunti nei pressi di metà stagione, è doveroso fermarsi a far visita ai campioni in carica, che in questi giorni andranno in gita da Obama per la rituale visita dei Campioni della stagione passata.
Il record parla di 27 vinte e 12 perse, prima posizione a est, ma solo la quarta a livello complessivo. L’attacco gira bene (sesti per punti segnati) e la difesa tiene (noni per punti concessi), l’unico vero campanello d’allarme sono i rimbalzi, pochi, che li relegano all’ultimo posto nella lega.
Certo, poi ci sarebbe il fatto che chiunque non si chiami LeBron e non abbia un’enorme fascetta che cerca impietosamente di coprire un’oceanica stempiatura, non sembra essere minimamente interessato alla stagione in corso, ma questi in fondo sono dettagli…
Un uomo solo al comando …
…ma anche a eseguire, a pulire i bagni, a stirare le divise …
James quest’anno è l’Heat che gioca di più (38 minuti a sera), segna di più (26), prende più rimbalzi (8), dà più assist (7), che prende più liberi e che prende i tiri più importanti. Il tutto con oltre il 51% dal campo. E non è che in difesa si riposi: è il miglior difensore sul suo uomo, il migliore in aiuto, dirige i compagni in campo, e se c’è un avversario (indipendentemente dal ruolo) che sta facendo particolarmente bene, se lo prende lui e lo mette a nanna.
Insomma, parlare dei Miami James potrebbe perfino essere riduttivo per descrivere cosa LeBron rappresenti per questa squadra. Un contributo simile lo ricordo solo da parte di Iverson nelle migliori stagioni a Phila.
James quest’anno è l’MVP, il giocatore più dominante della lega, e sembra che quando ha voglia non esista forza competente in grado di fermarlo. Solo che, e questa è la clamorosa differenza rispetto al passato, ora ha voglia quasi sempre. Certo, non essendo un alieno (anche se due analisi le farei, così, per scrupolo…), ogni tanto deve amministrarsi, e quindi nel corso della partita ti accorgi che ha dei passaggi a vuoto, però è difficile che abbandoni completamente una gara: è convinto di poterla sempre girare, e spesso ha ragione. Il problema è che quest’approccio conservativo spesso ce l’hanno anche i compagni, che però poi non sono altrettanto rigorosi nello “svegliarsi” quando serve.
Mi sembra evidente che l’avere vinto il titolo lo scorso anno ha dato a LeBron l’arma totale, l’unica che mancasse ad un arsenale impareggiabile: la convinzione nei propri mezzi; oggi non esiste l’antidoto.
Il deuteragonista
Dire che la stagione di Wade sia penosa potrebbe sembrare eccessivo. In fondo parliamo di una guardia di (ben) meno di 190 cm che, pur non avendo un tiro da fuori affidabile, segna oltre 21 a sera con più del 50%, aggiungendo per sovramercato 4 assist e 4 rimbalzi. Quello che fa valutare come insoddisfacente la sua stagione quindi non sono ovviamente questi numeri, ma il paragone (forse ingiusto, ma comunque inevitabile) con il giocatore che nel 2006 e dintorni aveva infiammato tutto il mondo. Quello che contraddistingue i grandi campioni, e li differenzia dalle slot machine da statistiche, è la capacità di tirar su la testa quando la squadra sta andando a fondo, il volere la palla in mano e cambiare l’inerzia di una partita facendo forza solo sul proprio talento e la propria volontà. Wade era quel tipo di giocatore, ad un livello che in passato era appartenuto forse al solo Jordan. Oggi invece è evidente la sudditanza psicologica di Dwyane rispetto a LeBron. Le attenuanti fisiche che hanno (forse) limitato la sua stagione scorsa sembrano oggi scomparse, ma è evidente che Wade va a traino di James: se LBJ suona la carica, Wade risponde e si mette a giocare, ma se la squadra sta alzando le mani dal volante non è mai lui a mettersi alla guida per primo. Non saprei se definirlo un sintomo di maturità del giocatore (ubi maior, minor cessat), o un segno del calo della “libido agonistica” della guardia da Marquette. Certo è che non vedere più in campo (se non per brevi tratti, come l’ultima partita contro i Raptors) quel giocatore meraviglioso, uno dei miei preferiti, fa un po’ tristezza. Vedremo se ai playoffs l’approccio cambierà, finora non posso che dargli una … sufficienza di lusso.
Il (non proprio atteso) ritorno di Cristina
Aspettate, sto per dirne una grossa: agli scorsi playoffs l’apporto di Bosh è stato fondamentale per la vittoria degli Heat, il suo spostamento a centro e il suo impegno hanno permesso di creare quella situazione tecnica favorevole nella quale James ha poi vinto il titolo.
Ecco, l’anno scorso. Quest’anno, oltre al ritorno a quella mollezza di fondo che l’ha reso l’oggetto preferenziale di insulto da parte degli addetti ai lavori, la simpatica Cristina ha aggiunto anche le bizze da attricetta minore, che si lamenta del poco spazio riservatole nello show.
I punti sono decorosi (17), la percentuale dal campo notevole (54%), ma i rimbalzi sono drammaticamente pochi (7), specie per una squadra dove non c’è concorrenza interna. In attacco, a parte le schiacciate sugli scarichi del dinamico duo (a lui il merito di trovarsi nel posto giusto al momento giusto, ma non molto altro), il resto sono quasi solo ricezioni da fermo al gomito, a cui segue quel tiretto molle, che spesso quest’anno non entra. Le ricezioni in movimento sono quasi sparite, e insieme a loro anche qualsiasi movimento spalle a canestro, di cui qualche avvisaglia si era (finalmente!) vista l’anno scorso.
Personalmente lo ritengo inguardabile, e per assurdo potrebbe essere un problema per gli Heat in ottica repeat molto più dello scarso spirito di iniziativa di Wade.
He got game? (e non state a dirmi che in inglese la domanda non si fa così, gente meschina!)
Unico altro Heat in doppia cifra (11,2), il neo arrivato Ray Allen sembrerebbe essersi ben inserito nella sua nuova squadra. La realtà è un po’ diversa. Gli Heat non costruiscono niente per Allen (abituato a guadagnarsi i suoi “sguardi al canestro” tramite un eccezionale lavoro dietro i blocchi), ma lo fanno tirare solo sugli scarichi. Questa situazione in generale non è congeniale a Ray, e questo si traduce in un rendimento molto alterno. La buona media di realizzazione è infatti … una media! Che comprende partite in cui The Candyman è particolarmente caldo (di solito nelle partite più motivanti, verso squadre forti) e segna anche 20 punti, ma anche tante partite in cui non entra proprio in partita, gioca poco e tira male.
Preso da disperazione, pur di cercare di mettersi in ritmo e non potendo contare sull’aiuto dei compagni, è tornato ad andare in penetrazione, cosa che non si vedeva dai tempi di Seattle.
In difesa la voglia è evidente, così come purtroppo il declino fisico.
Il giudizio complessivo? Come sesto uomo che entra e mette 3-4 triple sugli scarichi a partita per fare volume, trovo che sia stato un fallimento completo (per altro abbastanza prevedibile). Per questo ruolo sarebbero stati molto più adatti un Ryan Anderson, un Novak, un Korver, lo stesso Miller (se avesse una schiena in condizioni accettabili). Allen non ti può garantire quella costanza, ma ti dà il vantaggio di farti vincere col suo sangue freddo 3-4 partite in più in regular season (se ricordo bene ha già infilato due match winner), e magari 1 0 2 di playoffs. Insomma un costo inutile e non giustificabile per una squadra di media o medio-alta classifica, ma tutto sommato accettabile per una squadra che ha come unico obiettivo il titolo, e per la quale quindi avere a roster (e a libro paga) un giocatore che ti dà un vantaggio reale solo in una decina di partite l’anno può essere comunque sensato.
Vari ed eventuali
Il resto è poco, e non particolarmente eccitante. L’unico a uscire un po’ dal grigiore è Mario Chalmers, l’unico con un ruolo definito, un posto in quintetto sicuro, e comunque un apporto apprezzabile e costante. Ormai non fa nemmeno più finta di giocare play (provate a indovinare chi lo fa), ma sta in campo, punisce decorosamente gli scarichi da tre, ogni tanto dà un’accelerata al ritmo con le sue penetrazioni, non ha paura di niente e in difesa è competente. In calo invece minutaggio e quotazioni di Haslem, sempre più logoro e quindi meno efficace a rimbalzo e in difesa, anche il piazzato dai 4 metri (sua unica vera arma offensiva) ormai va e viene, ma soprattutto va.
Joel Anthony ha un ruolo principalmente punitivo, verso i compagni: quando il livello di testosterone scendo sotto la soglia di guardia, Spoelstra lo mette dentro per far vedere come si dovrebbe fare. Ma il bluff che possa giocare da centro in una squadra NBA ormai è stato scoperto da tutti: troppo basso, e drammaticamente troppo incapace di assimilare anche il più elementare concetto offensivo del gioco. Definitivamente non appartiene a questo livello, può permettersi di stare in campo alcuni minuti solo perchè almeno 2 dei suoi compagni di squadra sono così forti da poter reggere l’attacco anche con un uomo in meno. Ma a mezzanotte, tutte le carrozze tornano zucche. Peccato, perchè è uno di quelli per cui non puoi non tifare.
Quindi?
Gli Heat (con la sola, solita, notabile eccezione) sono pigri, svogliati, indolenti. Giocano nel quarto quarto, e un pezzettino nel primo. Per il resto, specie se la partita non è di cartello, tendono a costeggiare aspettando di vedere come va. L’atteggiamento è rivoltante, e la capacità di accendere e spegnere a comando è sicuramente presente, ma non a livelli di eccellenza.
Loro dicono che nei playoffs saranno più concentrati e si impegneranno di più. E tutto sommato gli si può credere. Con questo livello di concentrazione non sono da titolo, se invece decidono che valga la pena di sudare un po’, non vedo come potrebbero perdere. Oggi LeBron appare colossale, ma un po’ solo. Vedremo se i compagni vorranno regalargli (e regalarsi) un secondo titolo.
Vae Victis