Il derby angeleno dello scorso fine settimana ci offre la spunto per parlare dei due volti della Los Angeles edizione 2013, entrambi ampiamente diversi da quello che tutti si aspettavano.
Un uomo solo al comando
Partiamo dalle buone notizie e quindi, inaspettatamente, ci volgiamo alla sponda “povera”, quella dei Clippers. Miglior record della lega (insidiato di tanto in tanto da OKC e dai campioni in carica di Miami), un dicembre immacolato e una striscia di 17 vittorie consecutive sembrano dirci che per i Velieri questo è un anno speciale. Chris Paul è un legittimo candidato al premio di MVP; certo, Lebron è complessivamente più forte, ma se parliamo di prendere un gruppo di persone e farle rendere il doppio del loro valore reale, difficilmente si può andare molto lontano dal 3 rossoblu. In attacco siamo all’improvvisazione pura, si parte con un pick&roll, poi il Maestro legge la difesa e sceglie chi mandare a referto. Nei finali di partita CP3 si mette in proprio e, a dispetto dei pochi centimetri e di un esplovisità e atletismo importanti ma non indimenticabili (sempre in raffronto ai parametri NBA!), riesce a concludere in proprio, con percentuali che non dovrebbero essere permesse ai comuni mortali. A ben guardare la separazione tra playmaking (solo nei primi 3 quarti) e azioni in proprio (solo negli ultimi 5 minuti) appare un po’ troppo netta, forse un mix un po’ più flessibile aiuterebbe a rendere più imprevedibile l’attacco e quindi più alte le probabilità di vincere. Sembra strano detto di una squadra con questo record, ma come più volte evidenziato il gioco cambia radicalmente quando si va ai PO e si affronta per 7 partite la stessa squadra, che ha avuto tempo di studiare i tuoi punti deboli e preparare una strategia difensiva specifica. Pare buffo dirlo, ma quest’anno il traguardo minimo per i Clips è la finale di conference, e quindi queste osservazioni da precisini diventano pertinenti. Quando lo vedi giocare, non puoi fare a meno di tifare per Paul, ma l’impressione che spesso cerchi di sfondare a cornate le partite (tramite un talento prepotente, non tramite forza bruta) è troppo forte.
Piccoli Velieri crescono
Quest’anno però LA non si ferma a Paul; il resto del team ha fatto un deciso passo a vanti, sia in termini di qualità (e il primo nome che viene alla mente è quello di Jordan), che di quantità, passando dal non avere una panchina di livello NBA, ad avere forse la più forte della lega.
Come anticipato, DeAndre Jordan è cresciuto parecchio in estate, affiancando a doti fisiche sorprendenti (che ha sempre avuto) anche quel minimo sindacale di tecnica ed esperienza che lo rendono un giocatore che sposta. L’idea di poter fare un uso decoroso della palla anche quando non è un metro sopra il ferro l’ha reso un attaccante di cui la difesa deve tenere conto. Si vedono perfino episodiche ricezioni spalle a canestro, seguite da meccanici movimenti sul perno che, seppur non riscrivendo la storia del gioco, non procurano nemmeno crepe nelle pareti della Hall of Fame… Anche in difesa, la tendenza a inseguire la stoppata saltando troppo presto è ancora presente, ma meno automatica, rendendo il frugolone un difensore in aiuto più temibile, e soprattutto il miglior controllo del corpo gli permette di fare meno falli, e quindi poter stare in campo più a lungo.
In panchina siedono due giocatori diversi ma entrambi dominanti, due bombe pronte ad esplodere e far addirittura salire il ritmo quando gli esterni avversari, boccheggianti dopo 10 minuti di trattamento Paul, spererebbero di potersi riposare, e vedono invece addirittura peggiorare la situazione. Parlo ovviamente di Crawford e Bledsoe. Il primo è probabilmente il più educato candidato a sesto uomo dell’anno, un mix di talento, atletismo e sfrontatezza che schiena le difese praticamente da solo, con numeri da circo, a volte addirittura “dichiarati” su Twitter il giorno prima. Parliamo insomma di uno che su un campo di basket praticamente riesce a realizzare qualsiasi cosa gli passi per la mente, con però un’efficacia da giocatore anni 60. Dall’altra parte dello spettro abbiamo Bledsoe, una sorta di incredibile Hulk compresso nel corpo di un playmaker, uno che potrebbe pensare di spostare lo Staples Center a spallate, e non è detto che un giorno non ci provi. Se con Jamalone parliamo di lucida follia, qui siamo alla follia e basta: puro atletismo e prepotenza, con una spolverata di talento e senza nessuna coscienza. Non capirebbe il gioco nemmeno a fargli un disegno, ma non c’è forza competente che possa impedirgli di andare a canestro se decide di farlo.
Poi abbiamo Matt Barnes, allontanato dai Lakers con i quali è rimasto parecchio sangue amaro, è un altro panchinaro che gioca ad un livello stratosferico sui due lati del campo: asfissiante in difesa e estremamente concreto in attacco, fa tutto quello che serve alla squadra e lo fa maledettamente bene.
In corsia 5 sta invece rivenendo forte Lamar Odom: vomitato dai Lakers due estati fa, e dopo un anno diviso tra prestazioni opache in campo per i Mavs e prestazioni opache in video nel reality con la molesta moglie, la Kardashian, come dire, meno interessante, sembra aver finalmente ricordato chi era sull’altra sponda di LA. L’atletismo di un tempo ovviamente è perso per sempre, ma l’esperienza anche ad altissimo livello e il talento cristallino cominciano a riaffiorare. Certo, non è più il sesto uomo che da solo cambia una partita (o una stagione), ma se non ha nessuna pressione addosso come nella situazione attuale, può darti ancora parecchie soddisfazioni.
Il tutto nell’attesa che ritornino altri due pezzi piuttosto interessanti in ottica aprile-maggio (e forse addirittura giugno): Billups e Hill (sempre ammesso che esista per lui una vita dopo l’abbandono dello staff medico di Phoenix).
Nel quadro ho trascurato 3 nomi, in ordine calante di importanza:
il primo, Blake Griffin, gioca, sposta, non è molto continuo ma è in miglioramento. Devo dire che sono un po’ deluso, perchè mi aspettavo che, al crescere del livello medio della squadra, e quindi al diminuire della pressione che gli avversari possono mettere su di lui, avrebbe saputo migliorare in efficienza, in scelte di tiro, aggiungere qualcosa al suo bagaglio tecnico. Invece si è confermato sui livelli dello scorso anno, con gli stessi pregi e difetti: si è visto di peggio, intendiamoci, ma avrebbe potuto essere l’arma decisiva dei Clips, e invece è solo un buon giocatore.
Il secondo, Caron Butler, si presenta oggi come un onesto veterano NBA. I numeri e l’apporto non sono certo quelli di quando era un membro dei Big 3 di Washington, lui, Arenas e Jamison… aspettate, lo ridico un attimo piano: i Big 3 di Washington, lui, Arenas e Jamison; caspita, sembra passato un secolo (oppure esserci stato un terribile caso di omonimia)!
Dicevamo, non è più di certo un All-Star, ma fa bene il suo ruolo, fa qualche canestro d’esperienza in isolamento, e in generale non fa danni. Il terzo infine è Willie Green. Qui trattasi della più classica delle nomine “politiche”: amico di Chris Paul, è stato richiesto con insistenza dall’ormai plenipotenziario della franchigia, e quindi di corsa messo sotto contratto e addirittura in quintetto. Non lo merita, ma se lo chiede il capo, lo si prende e gli si dice anche grazie…
Morale
Per usare un termine un po’ tecnico: tanta roba!
Soprattutto se Billups e Hill tornano, e Odom continua nel suo recupero (soprattutto mentale) è probabile che in tarda primavera sentiremo ancora parlare di loro. In fondo i Lakers sono fuori gioco (tranquilli, ne parliamo meglio sotto), i Thunder restano i favoriti, ma ancora tutti da giudicare ai PO senza il barba, non ostante gli evidenti miglioramenti di KD, Westbrook e Ibaka, i Grizzlies sembrano solidi, ma meno impressionanti che un mese fa (e le voci di un tentativo di trade per Gay non aiutano), e gli Spurs appaiono interessanti, ma sospetti in post season almeno quanto i Clippers.
Fortuna che c’è Del Negro, non si può che vincere!
Fuori dai Playoffs?
Vi pare possibile? Pensando al nome scritto su quella maglia pare impensabile. Se guardi al roster, ancora di più. Se però leggi i record, 15-20, con oltre il 40% delle partite già giocate, 4,5 partite di ritardo sull’ottavo posto, la situazione è tutt’altro che rosea, e la resurrezione che tutti attendono nasconde però il dubbio su quali 3 delle 10 squadre oggi davanti a loro potrebbero passargli dietro. E questo sempre che Dallas non risorga e torni a competere per un posto al sole.
Diamo per buono il sorpasso di Utah, che quasi sicuramente farà una trade pesante entro febbraio, e potrebbe decidere di ricostruire e quindi tankare per il resto della stagione. Diciamo che potrebbero superare anche Minnie, dove i giocatori sembrano più portati per Grey’s Anathomy che per l’NBA. A quel punto per poter raggiungere i PO ci vorrebbe che una fra Houston, Denver e Portland andasse da qui a fine anno molto peggio dei Lakers: io sinceramente non mi sento di scommetterci. Complici anche gli infortuni attuali a tutti i Lakers sopra i 205cm, che hanno costretto a mettere l’agitatore di asciugamani Sacre in quintetto, nel posto che fu di Shaq, Jabbar, Chamberlain e Mikan.
Indifendibili (o “indifendenti”?)
Ma tralasciando un attimo tutti questi aspetti, per altro tutti importanti e realistici, quello che rende dubbiosi è ancora una volta il roster dei lacustri.
La panchina è del tutto assente; l’uomo di punta è Jordan Hill, tanto atletismo e buona volontà, ma onestamente poco altro. Discorso analogo per Meeks, poi abbiamo Jamison, ex All-Star e oggi nella cuccia di D’Antoni per non riuscire a rispettare i suoi standard difensivi (sigh!). Degli altri si fa fatica persino a ricordare i nomi. Questa non è una panchina adeguata nemmeno per una squadra di D-League.
E poi c’è il quintetto, il (presunto) punto di forza. Dell’impossibilità tecnica di convivenza fra Gasol e Howard ho già parlato qui, e direi che questo pezzo di stagione non ha fatto altro che confermare questo assunto. La questione difensiva, palesemente già il punto dolente sotto la gestione di un coach difensivo come Brown, è esplosa sotto D’Antoni (ma vah?). Prima ancora di ogni altro discorso, questi Lakers sono inaccoppiabili difensivamente con quasi tutte le squadre NBA. Nash non può tenere nessuno, alto, basso, veloce, tecnico, potente che sia. Non sarebbe un problema insolubile se il compagno di reparto fosse un gran difensore. A LA invece il compagno è Kobe, difensore sublime quando vuole ma che, ormai non si cerca nemmeno più di nasconderlo, non vuole mai. E’ chiaro che se hai 34 anni e devi spararti 30 tiri a partita (lasciate perdere che a lui piaccia farlo, in questa situazione oggettivamente “deve”), giocando 1 contro 5, da qualche parte devi risparmiarti. Quindi hai un backcourt in cui nessuno dei 2 giocatori difende. Neanche per sbaglio. Potresti provare a mandare in aiuto l’ala piccola. Qui abbiamo Metta World Peace, grandissimo difensore, forse 5 anni fa l’avrebbe anche fatto. Oggi invece è ancora un ottimo difensore in situazioni statiche, ma diventa pornografico in situazioni dinamiche e in aiuto. La situazione è chiaramente ingestibile, e come ciliegina sulla torta hai due lunghi che si odiano tra loro e si fanno i dispetti, dando sempre all’altro la colpa, e non aiutando mai nella speranza di far fare brutta figura all’altro. In più, con un Gasol costretto a inseguire delle ali piccole camuffate oltre la linea da 3, e Howard con una schiena che ricorda quella di Bird a fine carriera.
Per mettere l’ultimo chiodo nella bara, il gioco offensivo più diffuso nell’NBA è il pick&roll; storicamente i Lakers l’hanno sempre sofferto (si pensi alla finale persa con i Pistons, dove Billups ha letteralmente abusato di loro), ma ora siamo al limite del ridicolo. Coinvolti Nash sul palleggiatore, Gasol sul bloccante che poi si apre in pop, Howard in (presunto) aiuto sulla linea di presentazione e Bryant in roaming cercando di rubare palla senza nemmeno sapere dove sia il suo uomo.
Morale
Se l’attacco è disfunzionale, non valorizza i suoi componenti, anzi li limita, ma non si può escludere che accada un miracolo e Nash riesca a mettere d’accordo tutti per una galoppata finale, in difesa nemmeno un miracolo può risolvere problemi tanto evidenti. A inizio stagione ci chiedevamo se i Lakers avessero quel che serve a vincere il titolo. Oggi la domanda sulla loro possibilità di raggiungere i PO mi sembra onesta. Perfino doverosa. Per assurdo, la loro miglior chance è una trade, che potrebbe dargli quella botta emotiva necessaria per spingerli nel breve a dare tutto e agguantare i PO. Per quel titolo, mi sa che facciamo un’altra volta…
Vae Victis