Seconda di campionato.
La schedule NBA prevede il primo (vero) storico derby fra le due franchige della grande mela, quella nuova (i Nets transfughi della palude) e quella vecchia (nel senso che ha un’età media di 815 anni).
L’uragano Sandy però ha altri progetti per la serata, e consiglia caldamente di rimandare il match, pena il rischio di dover rivedere pesantemente il regolamento prendendo a prestito dalla pallanuoto…
L’unica altra partita prevista a tabellone è quindi OKC-SAS, che ci delizia sugli schermi di Sky.
Bel match, ben giocato, tirato, risolto solo all’ultima azione: essendo un grandissimo specialista di questo fondamentale, Tony Parkèr si smarca senza palla correndo dietro ai blocchi: in pratica fa un irresistibile finta di sopracciglio, che immediatamente convince l’ineffabile Westbrook che Parker correrà verso il centro di Central Park e lui, astuto, decide di andare ad aspettarlo là. Il francese ha così tutto il tempo di ricevere, tirare e insaccare il tiro della vittoria. Questo resterà nei libri, ma quello che più mi ha colpito è stata la performance amarcord di Timoteo Duncan.
Tonico come un personaggio dei cartoni animati e arzillo come beep beep, The Big Fundamental segna in quantità, è aggressivo, va al ferro, schiaccia, riapre con passaggi illuminanti, e difende! Clamorosa (e inspiegabile) resta l’azione in cui lui torna a coprire un contropiede di Durant, stessa altezza, ma metà dei chili, degli anni, e il doppio dell’atletismo. Durant sembra averlo battuto, e stacca per andare a schiacciare facendosi scudo del proprio corpo tenendo la palla con la mano esterna, irrangiungibile alla fine di quel metro e mezzo di braccio. Ma Duncan doveva aver già letto il libro, lo fa passare e, in pieno stile duncaniano, ovvero senza saltare un cm, e muovendosi come un bradipo, gli gira dietro e gli tocca la palla quel tanto che basta per fargliela cadere. L’azione finisce come ci ricordavamo: palla saldamente in mano al 21, e Durant con lo sguardo interrogativo che aveva Newton quando l’ha colpito la mela.
Chi segue l’NBA da meno di 5 anni potrebbe chiedersi come mai a noi anziani si inumidisce l’occhio nel vedere queste giocate, e come mai parliamo sempre con infinito rispetto di questo anziano giocatore così poco eccitante. Ecco, questa settimana proviamo a spiegarlo: mi scuso con chi già sapesse tutto, ma ora parte il:
[b]Duncan Tribute[/b]
La leggenda vuole che il tutto abbia inizio nei Caraibi, con un ragazzone di colore con le spalle larghe che si allena giorno e notte in piscina, per partecipare alla olimpiadi di nuoto.
Ma anche in questo caso (come nell’annullamento del primo derby newyorkese) un uragano si mette di mezzo, e scoperchia la piscina, lasciando al piccolo (oddio, si fa per dire!) Tim l’ardua scelta fra il mare con gli squali e il trovare un’altro sport.
Piano B. Andiamo col basket, ci viene anche abbastanza bene, 4 anni di Wake Forrest (prima non proprio sulle mappe cestistiche della NCAA) e siamo pronti per il draft.
I Celtics quell’anno avevano provato tutto il lecito e l’illecito per vincere il Duncan Derby, ottenendo ben due scelte in lotteria, che si tramutano però in una 4 e una 6, quindi repentino e doloroso addio al sogno di un caraibico in biancoverde (ditemi voi se, a parte Russel e Garnett, vi viene in mente un lungo più “da Celtics”). La lotteria la vincono invece gli Spurs, orgogliosi autori di una stagione che ha ridefinito il tanking come lo si conosceva prima, lasciando ai box per infortuni quantomeno sospetti Robinson e Elliot per tutta la stagione.
Duncan arriva all’Alamo, si trova in dote un allenatore nuovo di zecca (il simpatico Pop che, da GM, ha chiesto al precedente allenatore, Bob Hill, di perdere tutte le partite, salvo poi licenziarlo perchè ne aveva perse troppe, e prenderne il posto) e una squadra che poteva contare su:
David Robinson: se non sapete chi sia, basta che immaginiate Chris Bosh (ovvero tanti punti, tanti rimbalzi, tante stoppate, ottime statistiche, tutto concentrato in quel periodo dell’anno in cui non conta niente), ma montato invece che sul fisico di Barbie su quello di Capitan America. Quello che in una serie di playoff ha ritirato il premio di MVP stagionale e poi è stato usato da (H)Akeem come pezza da piedi per il resto della serie.
Sean Elliot: efficacissimo tiratore da tre, purtroppo afflitto da seri problemi ai reni, che lo facevano rimandare al mittente ognuna delle (innumerevoli) volte che la dirigenza provava a scambiarlo.
Vinnie Del Negro, che prima di essere uno dei peggiori allenatori di sempre era stato un decoroso giocatore da quintetto.
Avery Johnson. Ebbene sì, l’allegro doppiatore di Paperino era un playmaker senza nessun tiro da fuori o visione di gioco, ma indubbiamente dotato di coraggio, voglia e velocità nel penetrare.
Due anni di assestamento, e nel 99 (la famosa stagione con l’asterisco, in cui si gioca una RS di sole 50 partite a seguito del lock out) si alza il primo trofeo, sconfiggendo in 5 gare i Knicks del trio Houston, Sprewell e Johnson (Larry). Per massima umiliazione, la vittoria finale viene sigillata con un tiro da tre dall’angolo di Avery Johnson. Per capirci, un po’ come se Micheal Bisley si qualificasse primo al test d’ingresso dell’MIT.
Duncan è in crescita clamorosa, insieme a Robinson (ma anche più di Robinson) ha portato gli Spurs al loro primo titolo, le sue prodigiose statistiche crescono di anno in anno, e sembra pronto per diventare il più forte big man della Lega. Sfiga vuole che l’anno dopo esplode il big man più big di tutti, e raggiunge l’apice assoluto di una carriera inarrivabile: parlo ovviamente di Shaquille O’Neal, che per i successivi 3 anni decide che l’NBA è roba sua, e non è disposto nemmeno a venire giù a parlarne.
Duncan quindi continua nel suo miglioramento individuale, ma la squadra è vecchia e cade a pezzi, e nei PO si schianta regolarmente contro la muraglia gialloviola.
Nel 2003 c’è però la svolta: Duncan è al suo meglio di sempre, 25 punti, 12 rimbalzi, 3 stoppate, sempre il 50% dal campo. La squadra intorno a lui è cambiata completamente, e un Ammiraglio ormai più che altro decorativo viene affiancato dalla nuova era della franchigia: arriva Bowen, che sul perimetro usa ogni mezzo lecito (e soprattutto NON) per fermare i migliori esterni avversari; e poi 2 novellini, una play francobelga con poca testa ma la dinamite nelle gambe e una faccia da schiaffi da competizione, e un argentino con militanza italiana, che gioca un basket che nessuno nell’NBA pensava potesse esistere.
Siamo ancora nella prima era del regno di Pop I, il sanguinario tiranno che castra sistematicamente la folle espressività dei 2 citati sopra: un’azione fuori dal seminato viene punita con facce scure e sguardi torvi. La seconda comporta immediatamente la panchinazione. Pare comportasse anche la fustigazione negli spogliatoi, ma di questo non ci sono prove ufficiali.
Lo stile di gioco di questi nuovi Spurs è abbastanza rivoltante: tutto parte da una difesa asfissiante e perfettamente organizzata. Gli esterni, capitanati da Bowen, rendono la vita molto difficile ai pariruolo avversari; e se per caso questi riescono a passare, si trovano davanti le due torri, Duncan e Robinson, sempre pronte a punirli. Nel caso di Duncan, non si tratta di stoppare con balzi felini e delle veloci che spediscono la palla in tribuna. E’ tutto un gioco di centimetri, di posizionamento e angolatura del corpo, che fa sì che se tiri, sbagli, e probabilmente lui riesce anche a toccarti la palla: un buffetto che gli permette di recuperare la palla dopo la stoppata: non vai su ESPN, ma hai un possesso in più.
Dopo aver reso inguardabile il gioco avversario, gli Spurs uccidevano definitivamente ogni speranza di bel gioco e transumavano (con molta calma, si intende) verso la metà campo offensiva. Palla a Duncan in post, che generalmente realizzava in proprio: finte, perno, ganci, finte, anche qui questione di angoli e tempi. Il suo marchio di fabbrica è il tiro dai 3 metri usando la tabella, fondamentale scomparso da oltre un ventennio. Se proprio non riesce a segnare, riapre per i compagni sul perimetro. L’ideale sarebbe mettere delle bombe, ma a parte Bowen ogni tanto (e rigorosamente dagli angoli), nessuno Spurs sembra in grado di metterla dall’arco. Negli anni vengono provati diversi noti tiratori da tre (da Barry, a Smith, a Person, a Jackson), ma la maledizione dei 3 punti neroargento faceva sì che non la mettessero mai. Si ripiegava così sul ribaltamento di lato e su rapide penetrazioni sul lato debole. Non è che ci ammazzasse di punti, ma tanto gli avversari faticavano a superare i 60, quindi si vinceva lo stesso.
Il 2003 è la sua stagione migliore, secondo anello, secondo MVP delle finali e statistiche da incorniciare.
Ti verrebbe da dire: bene, adesso diventa il lungo più dominante della lega!
No. Chiunque altro avrebbe provato a farlo, ma il buon Tim dalle isole vergini ha un carattere particolare. Non ama apparire, stare sotto i riflettori: i compagni lo descrivono come un burlone, l’anima comica dello spogliatoio, ma nelle interviste ha un po’ meno verve di Romano Prodi. Perfino i tatuaggi li ha, ma solo in zone coperte dalla divisa, così non si vedono.
Tim, si diceva, non va per il giorno da leone, ma per i 100 da pecora: i suoi minutaggi da quell’anno iniziamo a calare costantemente, e si va dai quasi 40 minuti a partita fino ai 26 della passata stagione. Con il minutaggio calano ovviamente anche le statistiche, e l’impegno atletico profuso nelle partite: niente più schiacciate, meno salti, meno corse (non che prima si ammazzasse, eh!); Duncan sa che il totale di energie a sua disposizione è limitato, e quindi inizia a dosare la sua carriera. Il solito Pop connivente continua a fare facce scure, ma approva (forse addirittura consiglia) questa direzione, e un po’ alla volta sposta il peso dell’attacco su Parker e Ginobili, a cui viene data progressivamente maggior libertà (e in parallelo il gioco degli Spurs diventa più piacevole da guardare). Nel 2005 è ancora titolo, e ancora MVP per Duncan, anche se onestamente il suo apporto non è più così clamorosamente superiore a quello dei 2 nuovi compagni.
Altro pitstop, e nel 2007 ci si ripresenta di nuovo da Stern a ritirare il trofeo: l’MVP è chiaramente Manu, anche se il premio viene dato per motivi misteriosi a Parker.
L’unico vero (ed inspiegabile) neo della sua carriera sono stati i tiri liberi. 70% in carriera per un giocatore con quelle mani, quella tecnica, quel cuore e quella durezza mentale appaiono inspiegabili. Per un po’ il coaching staff degli Spurs ha cercato di farlo migliorare con ogni tipo di stratagemma e allenatore di tiro. Oggi ci si limita a non parlarne e a non chiedersi perchè, ma accettarlo come un postulato della fede.
Se consideriamo tutta la sua carriera (che per altro a giudicare da questo inizio di stagione potrebbe ancora riservare qualche sorpresa) pare difficile oggi non considerarlo come la più forte Ala Grande di tutti i tempi. Se consideriamo l’altro pretendente più accreditato, Karl Malone, il Postino l’ha sicuramente sopravanzato in quantità (sia per volumi prodotti, che per la durata nel tempo di questi volumi), ma decisamente non in qualità (il buon Karl non è stato esattamente impeccabile quando contava, a differenza di Duncan).
Forse se quella maledetta pallina l’avesse portato a Beantown l’avrei amato di più, ma in ogni caso non posso che rendere il mio piccolissimo omaggio ad un giocatore senza eguali nella storia di questo gioco.
Vae Victis
Carlo Torriani