«Ricordo la mia prima partita, non la dimenticherò mai. Mentre tiro, un avversario mi spintona e sbaglio. Vado dall’arbitro e, dal basso dei miei dieci anni, butto lì un timido “ma non era fallo?”; senza perdere un secondo, e senza quasi guardarmi, quello mi fischia fallo tecnico. Sorpreso, e a quel punto un po’ arrabbiato, gli dico “scusi, ma non le sembra di esagerare?”: espulso. Da allora con le autoritá ho sempre avuto un rapporto difficile…».
(Solér, #12)
Il basket è fatto di azioni spettacolari, dinamismo, finali di partita al cardiopalma, tecnica individuale, tattica, agonismo…tutto quello che volete, e che ci fa amare questo gioco in modo incomprensibile persino per alcuni che ci vogliono bene.
Ma il basket, soprattutto, è fatto da gruppi di persone.
Gruppi, con le loro dinamiche, tipiche di qualsiasi gruppo – non necessariamente sportivo – eppure almeno in parte peculiari; se non altro, perché le logiche dello spogliatoio sono adeguate ad un contesto nel quale, ad esempio, la linea tra titolari e riserve non è affatto netta come in altri sport.
E persone, con le proprie caratteristiche, la propria unicità, i tratti comuni tanto che sembra che in qualsiasi squadra si possa trovare lo stesso “tipo” che giá conosciamo…
Doppiati i trent’anni di frequentazione del parquet, il desiderio è quello di scattare qualche fotografia tra gli episodi rintanati nella memoria, convinto che parecchi, oltre agli interessati, potranno trovare analogie con i propri, di ricordi. E se anche così non fosse, chissà che non riesca a strappare almeno qualche sorriso…
On the road
Quando Zorzi, il grande pallavolista, smise di giocare, confidò in un’intervista che una delle cose che più gli sarebbero mancate sarebbero state le trasferte, complete di panini in autogrill e nottatacce al rientro.
Nessuna difficoltà a credergli.
Per chiunque pratichi sport, “la trasferta” ha un sapore epico, anche se significa spostarsi solo di qualche chilometro, magari senza neppure varcare i confini cittadini; purché, beninteso, lo si faccia tutti insieme.
L’elemento fondamentale è quindi il ritrovo, il punto da cui “la trasferta” fisicamente ed emotivamente comincia, con tutto il suo significato.
Prima partita della stagione, e prima stagione agonistica della nuova squadra: il calendario prevede una trasferta, zona est rispetto a Milano. All’ultimo allenamento pre-partita, il tassista in squadra focalizza l’itinerario e propone orario e punto di ritrovo: «al benzinaio di Piazza Piola, 19.30». Arriva il giorno fatidico, e tutti convergono puntualissimi al ritrovo; c’è chi ha fatto quattro giri della piazza (per i non milanesi: la circonferenza è enorme), in carosello automobilistico mai più riprodotto neanche per i mondiali del 2006, prima di armare il cellulare e lanciare l’SOS: «capitano, c…o, il distributore non c’è!!!».
Da allora, ogni convocazione è stata inesorabilmente «al benzinaio di Piola»…
Nicknames
Non esiste squadra senza soprannomi.
Forse non esiste gruppo, senza soprannomi; ma non ho ancora dati statistici attendibili per tirare la conclusione. Di sicuro, invece, non esiste squadra senza soprannomi.
I più semplici – di nicknames, intendo – partono dalle omonimie in squadra e sviluppano i diminutivi e gli accrescitivi. Abbiamo due…chessó, Franco? Bene, il più alto/grosso sarà Francone, e l’altro Franchino. Sia pur per breve tempo, ho avuto in squadra perfino un Marchissimo, dato che lo spot di Marcone era giá occupato.
Il problema è l’impiego di assoluti ad un rapporto relativo: Franchino é tale solo perchè più “ridotto” rispetto a Francone. Vallo a spiegare agli altri, agli amici o alle fidanzate che incaute accettano di assistere alle partite, che quello di 1.90 per 92 kg è Franchino. Che poi, il nomignolo rimane attaccato anche quando la sua origine si perde: Franchino, sempre quello di 1.90 x 92, resta tale anche se Francone lascia la squadra.
Poi ci sono i colpi di genio.
Portato da un suo amico, si presenta ad un allenamento un omino visibilmente fuori forma, e sí che giá la natura non era stata troppo generosa col suo fisico. Al momento di decidere i quintetti per la partitella, il capitano lo scruta dall’alto in basso, si avvicina ai negoziatori deputati a trovare squadre equilibrate e: «ok, L’Ammiraglio chi se lo piglia?»
(per i più giovani, o non esperti di NBA: The Admiral era il soprannome ufficiale di David Robinson, un massiccio di ebano alto 2.16 per 107 kg, che svolse il servizio militare e giocò per la Marina, prima di compiere tutta la carriera professionistica nei San Antonio Spurs).
Inutile dire che anche “L’Ammiraglio” è rimasto tale, a sua insaputa, per tutta la sua permanenza nel gruppo…
(to be continued)
Maurizio Zoppolato