C’è una gioia intrinseca che si fa strada dentro di me ogni volta che ho il piacere di gustarmi una squadra che gioca a basket. Per giocare a basket intendo avere solide basi difensive e in attacco un piano. I Milwaukee Bucks ce l’hanno, da quando sul pino della città di Fonzie siede Scott Skiles.
Il “gioco all’europea” – I Bucks vengono identificati come la più europea delle squadre NBA. Questo per il loro attacco, fatto di movimento costante della palla, spaziature ampie e uso e ri-uso di svariate tipologie di pick’n’roll. La definizione calza a pennello a Milwaukee, che schiera spesso 5 giocatori fuori dal tiro da tre punti, soprattutto col secondo quintetto. Schiera non significa che 4 di questi aspettino di vedere, immobili, cosa fa l’uomo con la palla (Jennings in primis), ma anzi sfruttando gli spazi che il set-up offre, creano da queste posizioni tagli e movimenti armonici. Un vero e proprio gioco di squadra. Dall’altra panchina coach Mike Brown, da sempre estimatore di quel che accade dalle nostre parti, dovrebbe apprezzare, ancor di più Messina, da dietro la panca, posto a lui riservato in qualità di assistente speciale del suddetto Brown. Un consigliere, un braccio destro dell’ex allenatore dei Cavs, che al momento non sembra avere grosse chances di veder trasferite idee e suggerimenti sul campo da parte dei Lakers. I Bucks li vedremo sempre poco sui nostri schermi, ed è un vero peccato perchè il gioco che mostrano meriterebbe maggior esposizione ma si sa: il mercato è quello che è e di conseguenza le scelte televisive, Sky compreso.
Quando Kobe si arrabbia – Succede spesso che per seguire la propria star di riferimento una squadra si nutra della sua energia, della sua volontà di vincere per fare quel passo avanti che ancora manca ai Lakers. Succede invece, e soprattutto succede a Los Angeles, che la suddetta volontà intimorisca a tal punto i compagni da non spronarli affatto, anzi! Ai Lakers tutto questo si è già visto, in passato. La differenza con la situazione attuale? Diciamone due: l’attacco triangolo e coach Jackson.
Share the ball – Primo comandamento di qualsiasi attacco di squadra, ivi compresa la famosa “Triple-post offense”, che più correttamente va definita come un vero e proprio sistema. Alcuni brani dell’attacco reso celebre dalla precedente gestione tecnica dei Lakers, e ancor prima dai Bulls di MJ e Pippen, sono ancora presenti, più per abitudine che altro, nel playbook di Gasol&C. Ma il resto rimane al momento inguardabile. Palla ferma (il contrario dei Bucks, per capirsi) tanti isolamenti, che diventano tantissimi isolamenti per Bryant, spaziature inaccettabili a questo livello. Qualcosa non va, e coach Brown lo sa bene. Soprattutto lontano da L.A. i suoi faticano (anche se la sera seguente strapperanno una non impronosticabile W in quel di Minneapolis) e se in mezzo a tutto questo ci mettiamo il “caso” Ron Ron…
“Io non ci sto” – In onore al presidente Scalfaro recentemente scomparso uso la sua famosa frase per parlare di un uomo, un po’ particolare, che ora ha pure cambiato nome. Ma mi rifiuto di chiamarlo con l’attuale, quel Metta World Peace che di certo non descrive quel che effettivamente l’ex Ron Artest è. Coach Jackson, dicevamo. Lui poteva (e c’è in effetti riuscito) tener testa ad Artest e gestirlo, tanto da renderlo un’arma impropria utilissima se non decisiva per molte vittorie. Con il “popovichiano” Brown al momento siamo al rispetto di circostanza. Con i compagni non ci arriviamo nemmeno. Si attende preoccupati, come la neve in questi giorni in Italia, la prima rissa in allenamento. Il nostro – è evidentissimo – sta per esplodere. Protagonista nel derby con i Clippers di prese stile wrestling e di quel girare attorno alle prede tipo squalo, ma senza azzannare davvero. Chi sarà la prima vittima?
Quando l’eredità pesa – Ah coach Jackson, dicevo. Lui si che ci sguazzerebbe in questa situazione. Bryant contro tutti ecc. Quante volte è già successo, dicevamo? S’è perso il conto. Poi un libro regalato, una seduta di meditazione zen, una trovata sul pulman o in albergo, una trasferta dove cementare il cameratismo, e i Lakers cominciavano a volare. La rabbia di Kobe restava solo agonistica, e a fine stagione, magari con un anello in più alle dita, rispuntava pure il sorriso da Monnalisa e le dichiarazioni da “libro Cuore” verso coach e compagni. Siamo già ai rimpianti? Sì.
Andrea Pontremoli